In quel momento di grazia della storia del rock, avevo anche smesso di cercare i nuovi Smiths. Ma era un periodo in cui poteva davvero succedere di tutto: e così li trovai, i nuovi Smiths, ma erano una donna, una ragazza di nome Polly.
In realtà penso sia una convinzione solo mia, questo accostamento non credo sia mai stato fatto da nessuno. Eppure, oltre al riferimento naturale di Patti Smith, l’impatto con PJ Harvey fu per me molto simile a quello con gli Smiths degli inizi. Dress aveva un’energia ruvida che ti attirava e ti metteva a disagio; un modo di indossare gli abiti poveri dell’indie rock sapendo di essere fatti per tutt’altro tipo di stoffe; i riferimenti al sesso così crudi da diventare poesia. Su tutto, un’urgenza espressiva che si trova solo negli esordi più memorabili, quelli che si contano sulle dita di due mani.
Abbiamo passato 20 anni con lei; ci siamo allontanati e poi riavvicinati. L’anno scorso con Let England shake è tornata a livelli molto vicini a quei primi anni fantastici. Prima la scoperta mozzafiato di Dry, poi il capolavoro con l’anima a nudo di Rid of me e dopo 2 anni l’ascesa ad icona classica con To bring you my love. Tra i dischi che ho suonato di più in quei primi anni di radio, a Psychocandy e a Taxi Driver. Siamo rimasti sempre in contatto, anche se per diversi anni l’abbiamo guardata un po’ distratti, da lontano. Ed ora, in un’epoca così povera di musica importante, ha tirato fuori un disco bellissimo, in grado di raccontare questi anni di crisi con un senso della storia e con una spiritualità da grandissima artista.
Lei così minuta e capace, su un palco, di diventare una regina alta 50 piedi. Tra i concerti della vita, quello del ’95 al Vox Club di Nonantola. Gigantesca, si muoveva battendo a terra uno scettro enorme, ad ogni canzone faceva crescere un’onda di desiderio sempre più alta, e al culmine della tensione dopo un’ora e un quarto finisce tutto: coito interrotto, sublime e crudele, come svegliarsi dopo aver sognato Patti Smith & The Smiths…