L’auspicio espresso alla fine della serie 45 45s at 45 si è già avverato! Abbiamo il partecipante n.3: questa volta dalla Germania, è Dirk con il suo blog Sexyloser, partito alla grande con i primi post, nel suo caso rigorosamente 7 pollici a 45 giri al minuto… Spin the black circles, Dirk!
E dopo 45 + 2 post sul passato (più remoto che prossimo), let’s go back to the present: i miei dischi preferiti del 2012.
Anche quest’anno molti dischi buoni: nessuno che abbia marchiato a fuoco il nostro tempo, ma i 5 che ho scelto hanno aperto finestre di senso in questo difficilissimo 2012. La mia Top 5 non è in ordine di preferenza, perchè proprio non riesco ad esprimere una graduatoria; gli album sono tutti al n° 1 ex-aequo, in ordine alfabetico per autore. A dire il vero, un n° 1 ce l’avrei ed è l’unico album contemporaneo di cui si è occupato finora Conventional Records. Padania degli Afterhours è il mio vero album del 2012, ma da sempre mi porto dietro il dogma per cui la musica prodotta in Italia non può gareggiare nel vero campionato del rock… Facciamo che è una Top 5 + 1, ok?
(Per i più impazienti, una shortlist sottoforma di Top 3 è stata inserita dal vecchio amico giovine scrittore Mario Gazzola all’interno dei Posthuman Music Award sul suo sito di magnifiche e progressive efferatezze Posthuman.it, insieme ad altre scelte very dangerous beyond limits…)
Un tempo, diciamo 15-20 anni fa, un personaggio come Bill Fay sarebbe stato per me una scoperta eccezionale. Perchè Bill Fay è veramente un perfetto artista di culto. Inglese, uscito in quegli anni meravigliosi (e molto affollati) all’inizio dei ’70, un po’ folk e un po’ pop, un po’ raffinato e un po’ maledetto, idealmente accostabile all’artista di culto per eccellenza, ed uno dei miei preferiti in assoluto: Nick Drake. Come avvenuto in molti altri casi, qualche nome illustre come Jeff Tweedy dei Wilco ne ha parlato in termini entusiastici e così qualche anno fa i suoi due album sono stati ristampati. Io provai a comprare il primo, ma nonostante le alte aspettative non mi si accese nessun sacro fuoco: colpa mia, probabilmente non era il momento giusto… sicuramente ci tornerò sopra. Nei miei corsi e ricorsi musicali, il 2012 era invece il periodo propizio per incrociare questo inatteso ritorno discografico, dopo oltre 40 anni (a parte un paio di pubblicazioni di materiali sparsi nel corso del tempo).
Life is people è miracoloso. Quest’uomo è rimasto nell’ombra, dimenticato da tutti per decenni, e grazie alla fiducia di chi aveva riscoperto la sua musica ha portato alla luce canzoni che gli hanno lavorato dentro per anni e anni. Ha trovato un produttore appassionato e devoto, che ha preso quelle canzoni e le ha rese perfette: Life is people è per metà anche di Joshua Henry e dei musicisti scelti per suonarlo.
Bill Fay fisicamente è invecchiato maluccio, ma spiritualmente è un uomo in pace con se stesso, forse felice, sicuramente sereno. Le sue parole e la sua musica hanno la purezza di Nick Drake, anche se di Nick Drake non c’è la perfezione chitarristica nè la voce di velluto. La voce di Bill Fay è sgraziata con gentilezza, è debole con vigore, è vecchia con innocenza. I suoni realizzati da Joshua Henry sono senza tempo, pienamente acustici ed orchestrali con discrezione, con richiami evidentissimi, ma mai eccessivi, a certi suoni di inizio ’70: le chitarre alla Richard Thompson, i cori d’impronta gospel, l’organo che riempiva di soul le canzoni dei bianchi da entrambe le parti dell’oceano…
The never ending happening
of what’s to be and what has been.
Just to be a part of it
is astonishing to me.
Illuminazioni dello spirito e contemplazione della natura dentro ogni verso, come nelle più belle canzoni di Mike Scott e dei Waterboys, ma in quelle di Bill Fay non c’è l’estasi dei cieli infiniti e delle fughe strumentali. Il miracolo si compie nella quiete della pace interiore, le parole e le note sono calibrate, nutrono l’anima ed infondono benessere: quello che è vero, quel che bisogna sapere, e che dovremmo sempre ricordare.
Queste canzoni hanno un modo bellissimo di rivolgersi agli uomini e a Dio, una saggezza umile ed autorevole, un sentirsi piccolo ed infinito, una nota del concerto cosmico di cui tutti siamo parte. Senza la minima ombra del misticismo o della ieraticità che hanno appesantito altri album illuminati dalla Grazia: quel che esce dai suoni di Bill Fay è asciutto, naturale espressione di una normale vita fuori dal comune.
Like my old dad said,
Life is people, life is people.
In the space of a human face,
There’s infinite variation.
E ci sta benissimo, tra queste canzoni, una versione solo piano e voce di Jesus, etc. dei Wilco (il 41° dei miei 45 45s): non solo come omaggio di Bill ad uno degli artisti più importanti per la sua riscoperta, soprattutto per il senso profondo della canzone, quel mettere a nudo l’essenza delle relazioni umane, la linea sottile tra un abbraccio che si stringe ed una ferita che si apre, la quotidianità degli oggetti che accompagna il mistero della nostra spritualità.
E’ con noi da pochi mesi questo album, ma penso sia destinato a diventare uno di quei dischi che ascolteremo come ascoltiamo i nostri migliori amici. Vi ricorreremo in tempi difficili, quando avremo bisogno di azzerare tutto e focalizzarci su ciò che conta veramente. Vi troveremo consolazione, coraggio e una testimonianza di fede schietta, senza paternalismo senza secondi fini, una voce che canta guardandoti negli occhi.
Ain’t so far away, the healing day
Coming to stay, the healing day.