25 25 after 89: DISINTEGRATION – THE CURE (10/25)

The-Cure-Disintegration

Prima o poi me lo prendo il cofanetto con tutti i DVD dei film di Sorrentino. Ho visto solo Le conseguenze dell’amore e mi era piaciuto tantissimo. Poi me li sono persi tutti, compreso This must be the place. La storia della rockstar che affronta l’invecchiamento facendo i conti con il passato dovrebbe avere molto in comune con il ritorno al 1989 di questa serie. Il volto di Sean Penn non mi sembra per niente adatto al look esplicitamente ispirato a Robert Smith; ma è evidente che, con quella specie di maschera grottesca, l’effetto che si voleva ottenere era simile a quello che tutti pensiamo quando vediamo il leader dei Cure travestito come 30 anni e 40 chili fa. Perché lo fa? Non aveva altri modi per invecchiare con grazia?

La risposta, come sempre, sta dentro i dischi. Non frequentavo i Cure da tantissimi anni e riascoltare Disintegration mi ha posto di fronte all’autorevolezza di un capolavoro indiscutibile, il punto d’arrivo insuperabile di una grande carriera. A me continua a piacere di più Kiss me kiss me kiss me, e se dovessi salvare uno ed un solo disco dei Cure probabilmente punterei su Staring at the sea (lo so, è una raccolta e non si dovrebbe; ma è una sequenza di singoli così perfetta…). Però Disintegration ha le qualità oggettive del capolavoro: bellezza delle canzoni, perfezione formale, unitarietà espressiva, consenso generale. Lo so che, in realtà, non esiste niente di oggettivo, e nel rock in particolare (dove tutti possono sostenere tutto e il contrario di tutto). Questo album, comunque, fa parte di quel canone che col passare degli anni si va sempre più consolidando, facendo assomigliare il rock ad una nuova forma di musica classica con opere di riferimento e protagonisti con le effigi immortalate un po’ dovunque.

Certo che poteva, Robert Smith: tagliarsi i capelli, smetterla col cerone e l’eyeliner, mettersi gli occhiali ed indossare abiti più sobri, più adatti al suo corpo ingrassato ed invecchiato. Ma è stato giusto così ed il motivo principale è proprio Disintegration. E’ lì che i Cure si sono cristallizzati in una forma perfetta, in grado di unire le generazioni, da chi li aveva amati fin dai primi album a chi li scopre oggi con Spotify. Ed è sempre da lì che la loro audience si è moltiplicata e i loro show si sono allungati, fino a superare le 3 ore. I Cure sono tra i pochissimi (come Springsteen e i Pearl Jam) ad essere tanto generosi con il proprio pubblico, cambiando ogni volta scaletta e dando vita alla migliore rappresentazione possibile della propria essenza. Forse faranno ancora nuovi dischi, ma i Cure continueranno ad essere sé stessi, ed anche la maschera di Robert Smith continuerà a caratterizzare quell’essenza.

La differenza rispetto a Morrissey, l’altro eterno adolescente con le radici piantate negli anni ’80, è evidente. Morrissey ha da sempre rinunciato a qualsiasi maschera, mettendoci la faccia ed invecchiando di fronte al pubblico, esponendosi a tutti gli alti e bassi che l’ispirazione, le mode e l’attenzione dei media gli hanno riservato. Robert Smith è sempre rimasto rintanato dietro la sua maschera, accettando di apparire sempre più fuori posto in quegli abiti, ma consegnando in questo modo i Cure al riparo dalle intemperie dell’evoluzione dei tempi. Due modi diametralmente opposti di preservare un’identità segnata dalla purezza e dalla vulnerabilità dell’età adolescenziale. Un concept artistico che probabilmente si realizza così pienamente per la prima volta nella storia e verso il quale, per appartenenza generazionale, provo un’attrazione naturale. Ma mentre la rilettura dei testi di Disintegration a tratti imbarazza per la prevedibilità delle immagini e dei sentimenti rappresentati (pur nella cristallina qualità delle composizioni), seguire le acrobazie verbali di Morrissey continua ad essere un piacevolissimo tormento, infinitamente più interessante sia negli album (tra capolavori e giri a vuoto, ma sempre con una trasparenza totale sulla propria anima) che, lo scorso anno, nella sua Autobiography: straordinario documento di questa esistenza come un’opera d’arte, una strenua resistenza a ciò che si dovrebbe diventare, per continuare ad essere Morrissey, anche dopo i 55 anni…

In ogni caso, questo diritto di non diventare vecchi sia Morrissey che Robert Smith se lo sono conquistato sul campo, a dispetto di come vennero considerati all’epoca da chi non riteneva la loro musica in grado di uscire dal ristretto ambito indie e di reggere il passare del tempo. Lullaby è ancora oggi una canzone modernissima, e di un livello che le miriadi di giovani band che popolano il rock di oggi si possono solo sognare. Nell’89 sembrava ancora impensabile portare il goth alle masse; proprio da quegli anni arrivò la trasformazione che ha portato i Cure in arene e stadi sempre più grandi (percorso parallelo a quello dei Depeche Mode, su un versante però più elettronico e spettacolare). Dietro quella maschera triste, Robert Smith non ha più smesso di vincere.

However long I stay
I will always love you

Lovesong è una delle perle più preziose sul disco più stravenduto di questo inizio di 3° millennio, 21 di Adele. Il fatto che 25 anni dopo sia così perfetta per una giovane cantante soul (con solo una piccola ombra new wave nell’anima) è la prova che le canzoni tristi dei 20 anni ti seguono sempre, dove e quando meno te l’aspetti…

2 pensieri su “25 25 after 89: DISINTEGRATION – THE CURE (10/25)

  1. Forse Lovesong è una delle poche canzoni di quell’album che non si possano definire tristi… per il resto mi è piaciuta la tua analisi. Disintegration è uno dei dischi dei Cure che più amo e ad ogni ascolto mi stupisco di scoprirvi sempre qualcosa di nuovo.

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