TOP 5/2012: Wrecking ball – Bruce Springsteen (5/5)

Wrecking ball - Bruce Springsteen

Lasciamo stare i dischi di Springsteen prima della pausa (1988-1991) e dello scioglimento della E Street Band. Sono alla base del nostro modo di essere e di pensare, non si possono confrontare con nient’altro. Sto parlando di noi Springsteeniani, una tipologia di persone disperse nelle città, nelle campagne e tra le generazioni, ma numericamente forse la più consistente fra le sottocategorie degli appassionati di rock (a occhio l’unica paragonabile potrebbe essere quella dei Beatlesiani, mentre i Dylaniani o i Fan degli U2 sono sicuramente di meno). Ecco, per noi gli otto album da Greetings from Asbury Park a Tunnel of love sono oltre: ognuno ha le sue preferenze, ma nel loro insieme formano una parte importante del nostro DNA.

E’ consentito discutere all’infinito, invece, sugli album dagli anni ’90 ad oggi. Anche questi sono otto, se consideriamo solo quelli in studio con canzoni originali (quindi al netto di cofanetti, raccolte, live e Seeger sessions). Su questi tutte le opinioni sono accettabili, in una perfetta simmetria di apertura mentale che controbilancia l’intolleranza verso il dissenso sugli anni ’70 e ’80. Io credo di appartenere ad una tipologia abbastanza benevola verso ogni cosa springsteeniana. Non rinuncerei a nulla di ciò che ha pubblicato, anche se non può esserci paragone tra le due fasi della carriera. Ma di questi otto, i tre che non mi dovete toccare sono Lucky town, The rising e questo Wrecking ball.

Tra le tante qualità per cui si può coltivare il culto della personalità di Bruce Springsteen, una delle più oggettive e non attribuibile ai deliri da fan è la cura ossessiva nella costruzione dei propri album. Forse non c’è nessuno che abbia avuto la stessa ambizione di raccontare storie individuali intrecciate nella Grande Storia Americana; sicuramente nessuno l’ha fatto bene come lui. Negli ultimi anni sembra avere un po’ attenuato quell’ansia di perfezionismo che allungava a dismisura l’attesa di una nuova uscita. E se forse sarebbe stato meglio che Magic e Working on a dream fossero un unico album con il meglio da entrambi, nel caso di Wrecking ball la visione è stata, se non perfetta, certamente orientata a lasciare un segno forte, probabilmente storico.

I dischi di Springsteen sono sempre stati collegati all’evoluzione dei suoi live ed in questi ultimi anni è successo qualcosa di strano, importante e bellissimo. Mentre Bruce finalmente ha imparato ad accettare come qualcosa di naturale il desiderio dei suoi fans di poter riascoltare anche le canzoni più dimenticate, organizzando i suoi tour e le singole scalette in modo da dare spazio a decine e decine e decine di pezzi, con la morte di Danny Federici e, soprattutto, con quella di Clarence Clemons si è aggiunta una consapevole coscienza del tempo trascorso e di quello che avanza, ed ogni sera è una celebrazione della vita che non ha eguali. Non so se i tour di questo Springsteen ultrasessantenne siano i più belli della sua carriera, ma un modo di invecchiare così pieno di energia, di rabbia e di amore, nel rock non c’era ancora stato. Si va a vedere Springsteen convinti di celebrare il passato e si esce inondati di voglia di presente e di futuro, di percezione che anche questi sono i nostri anni importanti.

La forza delle canzoni di Wrecking ball ha avuto piena conferma proprio nei concerti. Non stiamo parlando della Forza di Badlands, Born to run o Born in the USA: nelle 3 ore e mezza di un concerto di Springsteen ci sono i (tanti) picchi in cui uno stadio può diventare uno dei posti più importanti della tua vita anche se hai smesso di seguire il calcio, e l’importante è che le altre canzoni non siano degli anti-climax che fanno disperdere energia. Iniziare con We take care of our own e Wrecking ball significa credere moltissimo in queste canzoni e nel loro messaggio. La prima, anche dopo un anno che la conosciamo, ha una qualità inafferrabile, non picchia particolarmente duro, non ha ganci memorabili, eppure si impone con una strana forma di autorevolezza, in gran parte grazie a quel titolo così perfetto nella sua ambivalenza. Ci prendiamo cura di noi, e non c’è un unico modo giusto di intenderlo, vale come orgoglio di farcela da soli, come consapevolezza del proprio egoismo, come impotenza dell’essere stati lasciati soli… In modo più discreto, è lo stesso trucco perfetto azzeccato ai tempi di Born in the Usa, e come allora poche immagini asciutte e dirette scavano una traccia. Questa canzone resterà.

E che un’altra canzone destinata a restare fosse Wrecking ball lo pensai la prima volta che la sentii come bonus track “americana” del DVD ad Hyde Park. Con quel vago senso di frustrazione per l’ennesimo gioiellino disperso fuori dalla discografia base, e quindi con eguale sorpresa nel ritrovarsela non solo riabilitata, ma addirittura con il ruolo di title track. Una scelta che, insieme a quelle di recuperare Land of hope and dreams ed American land, conferma il collegamento tra questo disco ed i live degli ultimi anni. Certo, c’è l’ultimo assolo di Clarence Clemons, ma c’è dentro soprattutto il mito della E Street Band ritrovata dal ’99 in poi, proprio a partire da quella canzone con cui ritornava, per la prima volta dai tempi di Born in the Usa, il suono classico modellato da metà anni ’70 a metà anni ’80, fino ad arrivare alla sarabanda irish nata con le Seeger sessions, con cui si celebrava l’intera storia della musica americana e la più grande delle band americane:

You’ve just seen
the heart-stopping, pants-dropping,
house-rocking, earth-quaking,
booty-shaking, Viagra-taking,
love-making, legendary
E!
STREET!
BAND!

In questo disco finalmente la E Street Band ha integrato alla perfezione le esperienze di Springsteen degli ultimi 20 anni; la cosa più impressionante e convincente fin dal primo ascolto di Wrecking ball è probabilmente la sequenza iniziale, che da We take care of our own si sposta da un suono classico-moderno e radio friendly, simile a Magic e Working on a dream, ad un clima familiare ma in realtà inedito. Easy money, Shackle and drawn, Jack of all trades e Death to my hometown sono canzoni che si rifanno ai canoni più antichi della musica americana, il folk, il country, il gospel, l’irish folk, e suonano contemporanee e senza tempo, importanti su disco e carismatiche dal vivo. Quasi tutti hanno indicato in Jack of all trades la canzone più forte del disco, ma a me è piaciuto di più l’impatto d’insieme ed il modo di passare da un brano all’altro, in particolare dal finale solenne di Jack of all trades al battito esplosivo della marcia di Death to my hometown. Se mi avessero fatto ascoltare una canzone così in quei tardi anni ’80, quando Springsteen decise di nascondersi e di mancarci tremendamente, e la nostre band del momento diventarono i Waterboys, i Pogues e gli Hothouse Flowers, mi avrebbe fatto letteralmente perdere la ragione. Oggi posso reggerla senza problemi e goderla come una grande idea che dà forza e calore a questo disco importante.

Nell’arte degli album di Springsteen, lo ribadisco, la sequenza dei brani ha un ruolo fondamentale, ed è bellissimo accorgersi di come avviene il passaggio da un’emozione a quelle seguenti. Pochissimi hanno parlato di This depression, ed in effetti non è una canzone da portare negli stadi, ma in mezzo a Wrecking ball, proprio in quel punto lì, si impone con un’intensità profonda, unica, con un suono atipico e straniante, in particolare quell’assolo di chitarra che a me pare, per un musicista tradizionalista come Bruce, uno dei suoi momenti più originali ed innovativi. E’ vero, sarebbe bello vederlo alle prese con uno di quei produttori “forti” che danno respiro alle canzoni, Joe Henry o T-Bone Burnett o Rick Rubin… Qui con Ron Aniello non fa molta differenza rispetto a Brendan O’Brien. Secondo me, se Bruce mai si deciderà, sarà nella fase finale della carriera, dopo i 70 anni, tipo Johnny Cash…

E per schierarmi definitivamente, dirò che la mia canzone preferita di questo disco è quella che ha diviso di più. Rocky ground non è piaciuta ai fan più conservatori, quelli che non amano molto il Bruce troppo black ed ancora meno l’idea che si sia sporcato le mani con un innesto rap; e non ha convinto chi frequenta abitualmente hip-hop e nu-soul, e che giudica troppo maldestro il suo modo di rapportarsi con culture musicali distanti. Eppure, se si riesce ad ascoltarla senza pregiudizi di alcun tipo, questa è una canzone semplice e potentissima, costruita su pochi elementi combinati con quel gusto cinematografico che il Boss ha sempre avuto, anche se utilizzando linguaggi diversi. Quel predicatore campionato sotto quelle voci soul, quelle parole cantate con la stessa consapevolezza di My city of ruins e dei momenti più intensi degli ultimi anni, quei pochi strumenti essenziali, quella sezione fiati così solenne e struggente, quei 30 secondi rappati con asciutta naturalezza, quel coro gospel pieno di purezza ed armonia. Nella lunghissima notte di magie di San Siro 2012, insieme a The promise da solo al pianoforte, è stato uno dei momenti che personalmente mi hanno più sorpreso e toccato nel profondo.

E’ la nostra storia con Bruce che va avanti, anche questa musica ha trovato il suo posto dentro di noi, e adesso c’è un San Siro 2013 da aspettare. Non è più una faccenda di dischi da ascoltare e da giudicare, non lo è mai stata. Quando durante Tenth Avenue freeze-out Bruce ha cantato When the change was made uptown and The Big Man joined the band, quando ha fermato la musica e nel silenzio improvviso si è girato verso il grande schermo con le immagini di Clarence Clemons giovane meno giovane già vecchio, quando col magone ci siamo uniti in un applauso di gratitudine ed affetto infiniti, io l’ho pensato forse molti altri l’hanno pensato, che una cosa così è a suo modo una cosa vera come la famiglia come l’amicizia, e come queste cose le capisci se ci sei dentro e le stai vivendo, per chi sta fuori sei solo un povero idiota che dà troppa importanza a scemenze senza valore… Tra pochi giorni andrò a votare ed ho una paura fottuta di qualsiasi cosa succederà, tra due settimane perfino la Chiesa cambierà e non si capisce verso quale direzione, ed io qui oggi posso dire, a 45 anni, di essere sicuro di poche cose come del 5° San Siro con Bruce, subito dopo la trasferta a Padova e appena prima di compierne 46…

TOP 5/2012: Sweet heart, sweet light – Spiritualized (4/5)

Spiritualized - Sweet heart, sweet light

Jesus, won’t you be my bullet and gun?
Shoot all the sinners down, everyone.
Kill all my demons and that would be fine.
But I would be reloading all the time.

Ad ogni disco degli Spiritualized, bisognerebbe sempre tirare un sospiro di sollievo. Jason Pierce è ancora vivo, ed è in grado di fare dischi. Questa volta, addirittura il più bello dai tempi di Ladies and gentlemen we are floating in space. Con quel disco, oltre a fissare un livello di eccellenza difficilissimo da superare, venne codificato il template degli album degli Spiritualized: con le copertine farmaceutiche, l’alternanza di rock garagistico e ballate gospel, gli arrangiamenti ricchissimi e raffinatissimi ed un pervasivo clima di “sopravvivenza artificiale nel nulla cosmico”, che rappresenta la cifra principale del loro modo di interpretare la psichedelia. E’ come se Jason Pierce si fosse dato una missione artistica ed esistenziale, procurandosi ogni forma di sofferenza fisica, sentimentale, morale, spirituale, superandole con faticosi percorsi di cura del corpo e dell’anima e giungendo alla redenzione finale, senza però mai esserne appagato. Ogni disco degli Spiritualized mette in scena questa condizione di continuo travaglio, questa oscillazione tra buio e luce, questa necessità del male per ottenere il bene, e viceversa.

Roba da rimanerci secco, in ogni caso rischiando sulla propria pelle di giungere ad un punto di non ritorno. Considerando la cosa solo sotto il profilo artistico, il rischio di restare intrappolati in un cliché è altissimo. Eppure Jason Pierce non è mai scivolato sotto il livello dell’inutilità: anche nei dischi meno riusciti, quando gli capitava di riprodurre passaggi già visti, non ha mai perso il desiderio di generare bellezza ed esperienze di vita. Ce n’è sempre in quantità, e sarebbe sciocco fare a meno anche di uno solo dei suoi album.

Ma questo non è un altro album degli Spiritualized. Questo è davvero un disco speciale, e la differenza si coglie in molti modi. Nel primo brano funziona tutto perfettamente e non si capisce perchè: i singoli ingredienti di Hey Jane sono tutti sbagliati, un titolo velvetiano fuori tempo massimo, quasi 9 minuti di durata, una struttura di frasi melodiche scarne e ripetitive, un arrangiamento riproposto decine di volte… Eppure clic clic clic va tutto benissimo, alla fine dei 9 minuti hai sulla faccia stampato un sorriso che non se ne va più fino alla fine dell’album. Little girl le va dietro con analogo sprezzo del pericolo, questa volta con una melodia ruffianissima, presa di petto come se fosse il 1971: un altro sarebbe stato da impallinare, mentre Jason Pierce si libra altissimo perchè ha studiato e saputo fare propria l’essenza del gospel, ovvero come muoversi su linee melodiche e cori senza tempo con naturalezza e senza irritare nessuno.

I musicisti che sono anche grandi appassionati di musica applicano alle canzoni che realizzano l’attenzione al particolare e la concentrazione totale che dedicano alle canzoni che amano. Jason Pierce fa questo da quasi 30 anni, ed ha affinato una padronanza dei suoi strumenti che si accompagna ad un’ispirazione più luminosa che in passato. La qualità di scrittura che l’ha guidato è particolarmente evidente nei testi. Anche qui, non ci sono novità nei temi e nell’approccio, ma i risultati questa volta sono eccellenti. Jason Pierce ha dimostrato di essere uno dei più grandi autori di canzoni contemporanei, con un’autorevolezza che lo pone ormai al fianco dei nomi più classici, per la capacità di scegliere strutture semplici ma originali, e di seguire un sentiero lirico sempre avvincente e spiazzante. Headin’ for the top now è una delle sue consuete canzoni di doloroso e raggelante rammarico, ma la minimale genialità della melodia si riempie di versi precisi e inesorabili che ti entrano dentro senza poter opporre resistenza, ed alla fine siamo in grado di capire perfettamente Jason Pierce. Alla fine siamo anche noi Jason Pierce.

I am the song that writes the mind.
I am the man who don’t wait for time.
I am the heart that feeds your kiss.
I am the faith that gets your soul.
I am the pound of flesh that signifies the sum of all you’re told.
I am what I am.
Got it in my hand.
Hear what I say.
See what I am.
You understand?

Un’altra scatoletta di medicinali da assumere per via aurale, un’altra pasticcona rotonda, rigorosamente solo per chi prende le sue dosi su pasticcone rotonde dentro scatolette rettangolari. Fa effetto subito, farà effetto anche fra qualche anno. Fa effetto se la prendi una volta sola e continua a farlo se la prendi tutti i giorni. Ma la prenderai se capirai di averne bisogno, se sai ancora avere fiducia in quello che la musica può fare dentro di te. Prendila tutta, prendila fino alla fine, fino a quando Jason Pierce ti saluterà così:

So long, you pretty thing.
God save your little soul.
The music that you played so hard
ain’t on your radio.
And all your dreams of diamond rings,
and all that rock and roll can bring you.
Sail on.
So long.

TOP 5/2012: Silver age – Bob Mould (3/5)

Silver age - Bob Mould

I concerti degli Husker Du in Italia del 1987 (a Novellara e a Torino) sono con gli Smiths a Roma nell’85 quelli che rimpiango di più di essermi perso. Perchè sono stati uno dei miei miti assoluti ed ero anche nell’età giusta per seguirli, ma sono diventato un loro fan appena prima dello scioglimento e comunque non ero ancora così libero di muovermi da poter andare a un concerto dovunque fosse. Fino a 3 anni fa, Bob Mould non era più tornato e col passare degli anni le possibilità sembravano progressivamente diminuire. Quando uscì l’annuncio del concerto al Tunnel il 14 dicembre 2009, fu come se un patto di sangue al quale avevamo comunque tenuto fede potesse finalmente essere siglato.

Erano aaaanni che non andavo al Tunnel… Per i non milanesi, o per chi non c’è mai stato, è il caso di spiegare che il Tunnel nella seconda metà degli anni ’90 è stato la quintessenza del club alternativo. Era ricavato in uno spazio sotto la ferrovia, letteralmente un tunnel, vicino alla Stazione Centrale (via Sammartini, che avevo conosciuto bene negli anni precedenti, quando facevo volontariato con altri amici al Rifugio di Fratel Ettore), e programmava band indie rock e dj set d’avanguardia con jungle, trip-hop e tutto il meglio dell’elettronica. Tra le cose che ricordo di aver visto, Boo Radleys, Gene, Ruby, Santa Sangre, Sparklehorse… Il Tunnel nelle serate sold-out era un concentrato di energia ed eccitazione, l’atmosfera molto più carica e calda di qualunque altro posto di Milano. Era un cortocircuito emotivo amplificato dalla forma e dalle dimensioni ridotte del locale; un effetto inversamente proporzionale a quello generato nelle serate semivuote. Indimenticabile, nel bene e nel male, la serata in cui vidi Mark Eitzel. Da solo con la sua chitarra acustica, si presentò davanti a poche decine di persone in una serata che proseguiva con una dance night. Le sue canzoni di seta ed il suo canto tormentato vennero costantemente disturbati dal vocio della gente che aspettava al bar la fine del concerto e l’inizio del dj set. Nonostante gli anni di esperienza e lo spirito ironico con cui cercava di reagire alla situazione, si percepiva il suo scoramento crescente. Non durò più di 50 minuti, alla fine non ce la fece più e salutò imbarazzato ed umiliato. Ricordo che poco dopo, all’uscita, facendomi largo tra la calca di quelli che entravano per ballare, lo vidi allontanarsi da solo con la chitarra sulle spalle, a piedi in quella squallida strada nella notte milanese, probabilmente bisognoso di smaltire subito quella brutta serata. Fu uno dei momenti in cui compresi più chiaramente la fragilità umana dell’essere artisti, la gloria delle canzoni che avevo amato vissuto trasmesso da una radio unita al fallimento esistenziale di un pubblico che non c’è.

Meglio non rischiare: gli ultimi album di Bob Mould a Milano li avremo comprati io e una decina di irriducibili, ma chi lo sa quanti vecchi fan degli Husker Du potrebbero rispondere al richiamo? Mi muovo subito dopo il lavoro ed arrivo al Tunnel con la pizza in mano quando c’è solo una piccola coda che aspetta davanti alle porte chiuse. Poco dopo entriamo. Caro vecchio Tunnel, non sei cambiato quasi per niente… La musica di sottofondo è Kamakiriad di Donald Fagen: saranno 15 anni che non lo ascolto. Non c’entra una cippa con il Tunnel e con Bob Mould, ma forse anche per questo me lo godo alla grande. Il locale si riempie col contagocce, suona una band di supporto italiana da dimenticare (fatto), vado a mettermi abbastanza vicino al palco; e mentre continua ad andare Donald Fagen, arriva sul palco lui, Bob Mould, cuffietta di lana sopra la pelata e pizzetto, e comincia a sistemare, tutto solo davanti a tutti, le sue chitarre, la pedaliera e accessori vari.

Non è esattamente come quando allo stadio si spegne tutto e parte la musica di Morricone, con tutta la E Street Band che entra, uno per uno, e li vedi spuntare un po’ ad occhio nudo un po’ guardando i maxischermi; e poi alla fine arriva Bruce Springsteen, tutto lo stadio esplode e si parte con Badlands… Qui invece c’è uno che a 50 anni va in giro per il mondo completamente solo, senza mezzo roadie e si allestisce da solo le quattrocose per stare sul palco. C’è una vecchia citazione di Billy Bragg agli esordi: “Quando un artista che gira nei club sale sul palco con la sua chitarra può immaginarsi di essere James Taylor, o Bob Dylan. Io, quando vado su, penso ancora di essere i Clash”. Ecco, per fortuna Bob Mould quando sale sul palco pensa ancora di essere gli Husker Du. Davanti a 100? 150 persone? attacca una dopo l’altra canzoni recenti e piccoli grandi classici dai suoi album solisti e con gli Sugar, ma quando tira fuori i pezzi degli Husker Du è come se il pubblico raddoppiasse e si ricrea l’effetto Tunnel sold out dei giorni migliori: No reservation, I apologize, Hardly getting over it, Something I learned today, Celebrated summer… L’ultima è Makes no sense at all, per 2 minuti e 30 secondi lui ha 26 anni e tutti noi 19… poi torniamo nel 2009, ma il sangue è stato scambiato, il patto rinnovato per sempre.

Altri tre anni volano via e per tutti Bob Mould può restare lì nel pantheon dei migliori anni della nostra vita, al prossimo album diremo ancora un altro sì, ma quello che i fans non dicono è che, in fondo, non ci aspettiamo da lui più nulla di veramente rilevante. Poi però qualche mese fa cominciano a uscire commenti entusiasti sul nuovo album, e non succedeva dai tempi degli Sugar; l’adrenalina sale quando un paio delle firme più affidabili pubblicano recensioni positive poche settimane prima dell’uscita. Come non succedeva da quegli anni, faccio addirittura un paio di giri a vuoto da Buscemi per prendere subito il CD che non è ancora arrivato… Insomma, le aspettative passano da quasi zero a mille e quando finalmente metto le mani su Silver age…

You say you want it, you say you need it,
you say it’s everything you ever wanna be
the star machine is coming down on you.

Uno a zero, Star machine è il primo gol al primo minuto, una partenza da discone come si deve. Ed è subito qui, alla fine del primo pezzo e all’inizio del secondo, che capisci che è vero, è veramente il discone che aspettavamo da 20 anni: come nel concerto non c’è pausa tra un pezzo e l’altro, l’attacco di Silver age è uno di quei ganci a cui non è possibile opporre resistenza, anche perchè quello che Bob sta dicendo è never too old to contain my rage, the silver age, the silver age. Esattamente quello che siamo noi, quello che vorremmo dire e che bello sentire Bob dirlo lui, per noi, così bene. Si gioca una di quelle grandi partite, quelle in cui gira tutto giusto: subito dopo il due a zero arriva il terzo gol, forse il più bello, quello da mettere ad occhi chiusi nel The Definitive Bob Mould. The descent ha la scintilla speciale dei grandi pezzi di Warehouse o di Copper blue, il tiro della melodia, del ritmo, del rumore e le parole più giuste per affondare sotto la superficie e colpirci nel profondo:

Now my race is finally run
and as I tumble to the sun
all these dreams I can’t achieve
brought me crashing to my knees.
My descent has now begun,
all the music left undone.
My world, it is descending.

Dove quel che è maledettamente vero è che non ci possiamo fare niente, questa è la discesa e non si torna indietro. Ma c’è tutta la musica lasciata incompiuta, e sono tutte le cose che cercheremo e faremo nella strada che abbiamo davanti, mentre la velocità continua ad aumentare. La grandezza di quest’album è tutta in questo cambio di passo, che è prima esistenziale che artistico, e che consente a Bob Mould di trasformare la continuità stilistica del suo modo di comporre e di suonare in canzoni veramente speciali come quelle che sappiamo. Lo stesso scarto di motivazioni che fa la differenza tra lasciarsi vivere addosso il quotidiano procedere di questa discesa e tenere saldamente in mano le redini della vita, le cose che realmente desideriamo, la musica che vogliamo continuare a cercare.

Così Briefest moment esalta un po’ meno ma tiene altissimo il ritmo, mentre Steam of Hercules lo rallenta ma ci riporta a quelle ballate ebbre di rumore con cui rallentavano gli Husker Du in mezzo alle corse a perdifiato di Zen arcade e di Warehouse: songs and stories. La seconda metà dell’album è solo un poco inferiore, ma con una media mai avvicinata dai dischi di Bob degli ultimi dieci-quindici anni, e con un’altro pezzo da antologia come Keep believing, uno straordinario manifesto di fede nella nostra musica, come un’unica citazione obliqua della generazione Born in the 60’s:

No choice / Can’t leave
I have to keep believing
Bring me thoughts and words, pass me the revolver,
I can see for miles, and everything’s in color.
Rock and roll all night until I feel the thunder,
I got a handle on some complicated fun.

Bob Mould pensa ancora di essere gli Husker Du. Da solo su un palco, o su un disco con un nuovo power trio, è una delle notizie più belle dell’anno appena passato, e di quelli che verranno.

TOP 5/2012: Life is people – Bill Fay (1/5)

L’auspicio espresso alla fine della serie 45 45s at 45 si è già avverato! Abbiamo il partecipante n.3: questa volta dalla Germania, è Dirk con il suo blog Sexyloser, partito alla grande con i primi post, nel suo caso rigorosamente 7 pollici a 45 giri al minuto… Spin the black circles, Dirk!

E dopo 45 + 2 post sul passato (più remoto che prossimo), let’s go back to the present: i miei dischi preferiti del 2012.

Anche quest’anno molti dischi buoni: nessuno che abbia marchiato a fuoco il nostro tempo, ma i 5 che ho scelto hanno aperto finestre di senso in questo difficilissimo 2012. La mia Top 5 non è in ordine di preferenza, perchè proprio non riesco ad esprimere una graduatoria; gli album sono tutti al n° 1 ex-aequo, in ordine alfabetico per autore. A dire il vero, un n° 1 ce l’avrei ed è l’unico album contemporaneo di cui si è occupato finora Conventional Records. Padania degli Afterhours è il mio vero album del 2012, ma da sempre mi porto dietro il dogma per cui la musica prodotta in Italia non può gareggiare nel vero campionato del rock… Facciamo che è una Top 5 + 1, ok?

(Per i più impazienti, una shortlist sottoforma di Top 3 è stata inserita dal vecchio amico giovine scrittore Mario Gazzola all’interno dei Posthuman Music Award sul suo sito di magnifiche e progressive efferatezze Posthuman.it, insieme ad altre scelte very dangerous beyond limits…)

Life is people - Bill Fay

Un tempo, diciamo 15-20 anni fa, un personaggio come Bill Fay sarebbe stato per me una scoperta eccezionale. Perchè Bill Fay è veramente un perfetto artista di culto. Inglese, uscito in quegli anni meravigliosi (e molto affollati) all’inizio dei ’70, un po’ folk e un po’ pop, un po’ raffinato e un po’ maledetto, idealmente accostabile all’artista di culto per eccellenza, ed uno dei miei preferiti in assoluto: Nick Drake. Come avvenuto in molti altri casi, qualche nome illustre come Jeff Tweedy dei Wilco ne ha parlato in termini entusiastici e così qualche anno fa i suoi due album sono stati ristampati. Io provai a comprare il primo, ma nonostante le alte aspettative non mi si accese nessun sacro fuoco: colpa mia, probabilmente non era il momento giusto… sicuramente ci tornerò sopra. Nei miei corsi e ricorsi musicali, il 2012 era invece il periodo propizio per incrociare questo inatteso ritorno discografico, dopo oltre 40 anni (a parte un paio di pubblicazioni di materiali sparsi nel corso del tempo).

Life is people è miracoloso. Quest’uomo è rimasto nell’ombra, dimenticato da tutti per decenni, e grazie alla fiducia di chi aveva riscoperto la sua musica ha portato alla luce canzoni che gli hanno lavorato dentro per anni e anni. Ha trovato un produttore appassionato e devoto, che ha preso quelle canzoni e le ha rese perfette: Life is people è per metà anche di Joshua Henry e dei musicisti scelti per suonarlo.

Bill Fay fisicamente è invecchiato maluccio, ma spiritualmente è un uomo in pace con se stesso, forse felice, sicuramente sereno. Le sue parole e la sua musica hanno la purezza di Nick Drake, anche se di Nick Drake non c’è la perfezione chitarristica nè la voce di velluto. La voce di Bill Fay è sgraziata con gentilezza, è debole con vigore, è vecchia con innocenza. I suoni realizzati da Joshua Henry sono senza tempo, pienamente acustici ed orchestrali con discrezione, con richiami evidentissimi, ma mai eccessivi, a certi suoni di inizio ’70: le chitarre alla Richard Thompson, i cori d’impronta gospel, l’organo che riempiva di soul le canzoni dei bianchi da entrambe le parti dell’oceano…

The never ending happening
of what’s to be and what has been.
Just to be a part of it
is astonishing to me.

Illuminazioni dello spirito e contemplazione della natura dentro ogni verso, come nelle più belle canzoni di Mike Scott e dei Waterboys, ma in quelle di Bill Fay non c’è l’estasi dei cieli infiniti e delle fughe strumentali. Il miracolo si compie nella quiete della pace interiore, le parole e le note sono calibrate, nutrono l’anima ed infondono benessere: quello che è vero, quel che bisogna sapere, e che dovremmo sempre ricordare.

Queste canzoni hanno un modo bellissimo di rivolgersi agli uomini e a Dio, una saggezza umile ed autorevole, un sentirsi piccolo ed infinito, una nota del concerto cosmico di cui tutti siamo parte. Senza la minima ombra del misticismo o della ieraticità che hanno appesantito altri album illuminati dalla Grazia: quel che esce dai suoni di Bill Fay è asciutto, naturale espressione di una normale vita fuori dal comune.

Like my old dad said,
Life is people, life is people.
In the space of a human face,
There’s infinite variation.

E ci sta benissimo, tra queste canzoni, una versione solo piano e voce di Jesus, etc. dei Wilco (il 41° dei miei 45 45s): non solo come omaggio di Bill ad uno degli artisti più importanti per la sua riscoperta, soprattutto per il senso profondo della canzone, quel mettere a nudo l’essenza delle relazioni umane, la linea sottile tra un abbraccio che si stringe ed una ferita che si apre, la quotidianità degli oggetti che accompagna il mistero della nostra spritualità.

E’ con noi da pochi mesi questo album, ma penso sia destinato a diventare uno di quei dischi che ascolteremo come ascoltiamo i nostri migliori amici. Vi ricorreremo in tempi difficili, quando avremo bisogno di azzerare tutto e focalizzarci su ciò che conta veramente. Vi troveremo consolazione, coraggio e una testimonianza di fede schietta, senza paternalismo senza secondi fini, una voce che canta guardandoti negli occhi.

Ain’t so far away, the healing day
Coming to stay, the healing day.