Two years in the making, and not very successful… Ma già è stato un successo portare a termine la missione. Se poi a qualcuno è piaciuta, o addirittura è servita a qualcosa, well the pleasure and the privilege is mine. Sicuramente è servita a me e penso continuerà ad essermi utile anche in futuro.
Ci sono anni che non ci lasciano mai, ed il 1989 è sicuramente uno di quelli. C’è stato molto 1989 anche nel 2015, come vedremo nel primo post del 2016.
Intanto, auguri di buon anno nuovo con una pop song dell’89, che però era dell’88. Ma che va ancora benissimo oggi. Should we talk about the government?
L’ultimo disco del 1989 è anche il primo degli anni 90.
Non ce n’è uno solo, di primo disco degli anni 90. Dipende dalla storia che vuoi raccontare. In quella che ho raccontato io, e che sta per finire, ci sta bene che sia Let love rule, l’esordio di Lenny Kravitz. E che venga subito dopo Hats dei Blue Nile, e quello che ho scritto sulla musica degli anni 80.
Per noi rockettari fu facilissimo accorgersi di Lenny ed apprezzare Let love rule. Oggi non sembra una scelta così particolare, ma allora tutti quei suoni vintage e quelle melodie coloratissime (e “di colore”) arrivarono come un Ufo, dopo un decennio di sintetizzatori, batterie elettroniche e minimalismi indie o punk. Lenny Kravitz fu il segnale più chiaro ed inequivocabile che il vento era definitivamente girato: suoni veri, classici, modelli ambiziosissimi. Beatles, Traffic, Southern Rock, Stax, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, Jimi Hendrix, Psichedelia… Roba che in heavy rotation su Mtv e nelle radio non ci andava da 20 anni e che riscoperta in quell’epoca suonava antichissima e freschissima nello stesso tempo. Non è certo solo “colpa” sua: ma sicuramente è stato uno dei primissimi ad inoculare il germe della Retromania che oggi domina le nostre generazioni (e non solo). Era divertente, era cool e soprattutto sprigionava un talento incontenibile. Entrando nei 90s, i suoi dreadlocks e le sue freakerie estetiche si trovarono in perfetta sintonia col ritorno del rock che tra il ’91 e il ’97 ha determinato forse l’ultima stagione significativa a livello generazionale. Più di Let love rule, il suo album più memorabile secondo me è stato Mama said: un po’ meno Beatles, un po’ più black e strapieno di meravigliose chitarre elettriche (il miglior momento dell’intera carriera di Slash è Always on the run…).
Ma la vera scintilla di quest’album uscito negli ultimi mesi del 1989 e degli anni 80 è proprio il suo ingrediente principale. L’elefante (indiano) che rientrava nella stanza: il fattore Beatles. Anche in questo caso, non saprei dire quanto pesino i percorsi personali rispetto alle evoluzioni generazionali. Ma per me i Beatles sono la pietra angolare su cui poggia tutta la mia esperienza musicale. Quindi una delle Fonti della Vita. La mia esistenza ha cambiato percorso la mattina del 9 dicembre 1980, quando la radiosveglia vicino al mio letto si accese con il GR delle 7 e 30 con la notizia dell’assassinio di John Lennon. Avevo 13 anni, e fino a quel momento Beatles e Lennon erano nomi solo vagamente familiari, la musica in generale una colonna sonora più o meno casuale. Quell’evento fece nascere in me un desiderio di conoscere tutto quello che potevo trovare sui Beatles e la loro musica. Ricordo di aver guardato completamente rapito, qualche giorno dopo, Jocelyn a Discoring che presentava il cofanetto The Beatles Collection, contenente tutti i 14 LP pubblicati: li passò in rassegna uno dopo l’altro, mentre in sottofondo si sentivano frammenti di alcune canzoni, fino ad arrivare a Let it be.
LET
IT
BE
Per anni rimase la mia canzone preferita, un’ossessione dentro la passione sempre più totale per John Paul George e Ringo. Passione totale, ma parziale. Perché anche se li apprezzo, i Beatles prima del 1965 sono una passione normale; ma la botta fatale sono i Beatles da Rubber soul in poi. Le canzoni della seconda fase dei Beatles sono il Canone a cui mi sono sempre riferito, l’imprinting indelebile anche se passano anni senza riascoltarli. Ma nei primi anni 80 erano la base delle mie diete musicali, insieme alla scoperta dei grandi del passato ed alla graduale consapevolezza che anche in quel decennio uscivano album bellissimi e che il rock aveva un presente ed un futuro. Eppure, soprattutto all’inizio, la mia scoperta dei Beatles e la scelta preadolescente di farli diventare La Mia Musica, erano anche una reazione ad un presente così privo di Beatles (e di anni 60). Il pop elettronico, il post-punk, l’hard rock (per non parlare della dance) componevano uno scenario lontanissimo dai sogni dei sixties, cinico, postmoderno e futurista; i Beatles erano solo uno dei mille ingredienti utilizzabili in quelle nuove grammatiche sonore in continua evoluzione. In questi giorni ho riascoltato anche un altro album ultra beatlesiano degli anni 80: Skylarking degli XTC (nella recente versione che ha corretto gli errori di masterizzazione dell’originale del 1986). Ebbene, anche se l’ispirazione di quasi tutti i pezzi era evidentemente Beatles al 100%, l’approccio era 100% anni 80: nel modo di trattare quei materiali musicali, era evidente che prevaleva tutto ciò che era venuto dopo i Beatles. Tutto il contrario di Lenny Kravitz, il cui obiettivo era riproporre fedelmente lo spirito e la lettera del mitico passato.
Da questo punto di vista, probabilmente fu la stessa scomparsa di Lennon a determinare quel decennio senza Beatles. L’eredità di Double fantasy lasciava il ricordo di un artista in continua evoluzione, mentre anche McCartney e gli altri ex Beatles solo occasionalmente strizzarono l’occhio al loro monumentale passato, preferendo realizzare dischi nei tempi e nei modi che gli interessavano. Per me, quindi, era come se il passato di cui mi ero innamorato ed il presente che mi appassionava fossero due mondi separati ed inconciliabili. Ritrovarmeli riuniti in un nuovo artista era fantastico. Ed una suggestione si faceva strada: gli anni 90 sarebbero stati (almeno un po’) i nostri anni 60?
Fermiamoci qui. Fermiamoci su questo confine invisibile, senza più muri e con le geografie da riscrivere. Limitiamoci a constatare che sì, i 90s si riempirono di 60s e di Beatles: addirittura, per un anno (o un mese, o un giorno solo, a seconda dei punti di vista) si avverò almeno una volta l’eterna chimera dei Nuovi Beatles, con gli Oasis ed una manciata di canzoni come quelle senza essere come quelle. Quanto alla realizzazione delle speranze e delle mille potenzialità che attraversarono la soglia del 1989, insieme ai muri, in questi 25 (+1) anni, è crollato tutto il mondo come lo conoscevamo. È un’epoca senza punti di riferimento, in particolare nella musica che si è “liquefatta”, anzi smaterializzata. Se tutta questa Storia ha avuto un senso, se la piccola storia di questa serie deve avere una conclusione, non è nel Mondo Nuovo che cercavamo al di là del Muro e che non abbiamo trovato; piuttosto è nell’Uomo di Tienanmen che si mette davanti ai carri armati. Quelli che ci sono stati, che ci sono e che ci saranno. L’Uomo che solleva la testa, che vuole cambiare, che ci prova: cento volte travolto sconfitto umiliato, ma quando c’è, lascia sempre una traccia nella Storia. E quando vince, vincono tutti. In quel giorno magnifico degli anni 90 in cui gli Oasis toccarono il cielo dei Beatles, Noel Gallagher cantò uno dei suoi versi più lucidi e ispirati:
Please don’t put your life in the hands
Of a rock’n’roll band
Who’ll throw it all away
Ed è andata proprio così. Don’t look back inanger:non dobbiamo rimpiangere il Muro ed il Futuro che non è arrivato. Non dobbiamo aspettare la prossima band che spaccherà il mondo e farà la nuova rivoluzione. Dobbiamo cercare l’Uomo, ogni Uomo che procede in direzione ostinata e contraria. Does anybody out there even care? Sì, finchè ci sarà qualcuno che pensa scrive suona crea cose più grandi della vita.
Let Love Rule.
Let It Be.
Avrei finito.
Ma proprio oggi mi sono imbattuto in questa foto. E allora, il 1989 lo salutiamo così.
La data non è precisa, comunque circa 1990.
Tre balordi, fatti come coppertoni.
Il primo è il leader di una delle band più cool di Manchester, la città più cool dell’universo: il loro primo album esce e va dritto in testa alle classifiche.
Il secondo è il leader della band con la canzone pop più perfetta dell’universo: tutti scommettono che esploderanno ancora più di quelli di Manchester (e poi sono di Liverpool come i Beatles…).
Il terzo è un fan del primo, ed è appena diventato un roadie per quella band.
Oggi.
Clint Boon ha riformato i suoi Inspiral Carpets. Ce li ricordiamo solo noi 40/50enni fighetti, ma se venissero a suonare dalle nostre parti pochissimi ci andrebbero: come si fa, il lavoro, la famiglia…
Lee Mavers ed i suoi La’s hanno inciso un solo album. Lui si è perso, un po’ come Syd Barrett o Brian Wilson. Chissà se si ritroverà mai. Comunque, There she goes è un classico senza tempo: Radio Capital, tra altri 25 anni, la trasmetterà ancora…
Noel Gallagher ha smesso di fare il roadie, è entrato nella band di suo fratello ed ha pensato che potevano essere come i Beatles (anche se non erano di Liverpool). Per un anno (o un mese, o un giorno solo) ci sono riusciti. Forse tra un po’ di tempo farà la pace con suo fratello. Forse canzoni come quelle non ne farà mai più.
Ma forse, da qualche parte, qualche altro ragazzo ha chiesto alla sua band preferita di fare il roadie…
Uno degli effetti collaterali di questa lunga serie è che il riascolto dei miei album del 1989 ha riacceso e ravvivato il mio amore per gli anni 80. La mia droga televisiva più o meno quotidiana, nelle ore serali e notturne, è Capital TV. Un guilty pleasure che fa meno male di birra e pistacchi, ma che assunto insieme ad essi provoca stati di alterazione della realtà su cui la scienza non ha ancora indagato. Può darsi che il mio sistema di valori musicali sia stato pesantemente compromesso da questa malsana esposizione a selezioni dal canone classico dei decenni dal 1960 al 2000, con una netta prevalenza di 70s ed 80s. Eppure, la ragione di tutte quelle endorfine che mi procura la visione non solo di Clash, Jam o Talking Heads (e vorrei vedere), ma anche di roba che un tempo detestavo come A-ha, Journey o Duran & Spandau, non penso si debba ricondurre solo ad una grave forma della malattia più diffusa del decennio: la Retromania.
Penso invece che tutto quel pop elettronico e non, quel rock radiofonico più o meno hard, a distanza di anni, abbia acquisito un valore oggettivo, legato a diversi fattori. Soprattutto la centralità pervasiva dell’industria musicale, che toccò il suo apice in quel decennio, sulla scia di una storia di stili generazionali ormai già trentennale e con la necessità costante di un ricambio orientato al futuro, accelerato violentemente dalla rivoluzione punk dei tardi anni 70. Ed insieme, la convivenza in parallelo di una musica sfacciatamente orientata al consumo, contrapposta ad una scena antagonista mai così ricca e così antagonista, artisticamente e politicamente. Davvero: in quel contesto così unico tutta quella fuffa da classifica che ci sembrava così banale, per esistere ed affermarsi sprigionava un X Factor potentissimo, che infatti non è mai più andato via. E per contrastare tutta quella forma, la musica indipendente si concentrava al 100% sulla sostanza: grandi canzoni, band che potrebbero essere la tua vita, tutti i suoni che hanno plasmato il futuro, i giorni importanti di quegli anni importanti. Ed è così che oggi una sequenza tipo Prince-Wham-R.E.M. mi esalta più di una James Brown-T.Rex-Doors, o Beck-TLC-Oasis.
Ma cosa c’entrano questi discutibili deliri con Hats dei Blue Nile? Quasi nulla, ma per me quasi tutto, nello spirito totalmente personale ed assolutamente autoreferenziale di questa serie. Cominciamo col dire che questo è l’unico album che al riascolto, in tutta sincerità, non mi ha esaltato. Ma è un problema mio, solo un problema mio. Hats merita tutti i giudizi positivi che trovate in giro: capolavoro, disco unico, perfetto, essenziale… Ma a me piace fino a un certo punto. Ed è sempre stato così, con vari alti e bassi; ma ho voluto comunque metterlo tra questi 25 album, lasciandone fuori un altro che sicuramente avevo ascoltato ed amato di più. (E diamoglielo almeno l’onore di una citazione, ad una manciata di bellissimi esclusi: The Trinity Sessions dei Cowboy Junkies, Fromohio dei Firehose, Shooting rubberbands at the stars di Edie Brickell, Crossroads di Tracy Chapman, Peace and love dei Pogues ed il primo omonimo dei Buffalo Tom).
Il mio problema con i Blue Nile è soprattutto legato ai suoni sintetici, alle ritmiche elettroniche elementari completamente prive di swing (anche se perfettamente funzionali alle loro composizioni), alle melodie minimali, alla troppa perfezione ricercata ottenuta governata. Per il resto mi piace praticamente tutto, dalla voce di Paul Buchanan al concept delle singole canzoni e della band in generale (giovani-uomini-sensibili-e-malinconici). Ma non riesco, dopo tutti questi anni, a considerarli miei. Li ascolto da fuori, senza riuscire ad entrare dentro il cuore della loro arte. Che ci fanno allora tra i miei 25 25 (+1) after 89? Ho scelto Hats perché rappresenta al meglio il mio rapporto con gli anni 80 e come ne sono uscito. Vivo, adulto e lucidamente consapevole.
Gli anni 80 ce li abbiamo dentro, il 1989 ha segnato un prima e un dopo; forse non il passaggio più importante e sicuramente non l’unico, ma inevitabilmente quello maggiormente connesso con l’essenza di ciò che siamo: l’impasto tra l’io bambino ed il caos primordiale dell’adolescenza. Quello che ci succedeva nella quotidianità si è stratificato tra le scelte di campo musicali che coincidevano, mai come allora, con quelle esistenziali; e tra la musica che girava intorno e che mai come allora ci colpiva in profondità, nel bene e nel male. Per quanto possiamo avere odiato Save a prayer per tutto quel tempo, quando oggi la risento si porta dietro un carico di significati che forse è solo mio, ma non mi importa: perché stava vicino a tutta la musica che scoprivo e che sceglievo contro tutto il resto, perché anche il pop fa parte della vita “che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti”, perché, al netto di cosa rappresentavano Duran & Spandau, era una grande canzone pop. Ecco, Hats è per me il perfetto punto d’incontro tra tutte quelle stratificazioni che porto dentro. Anche se non riesco ad amarlo come vorrei, lo ascolto e lo riascolto e sto come quando la sera su Capital TV vedo prima Pride degli U2 e poi Girls just want to have fun di Cindy Lauper: molto (ma molto) bene. Sto benissimo, perché in quei video ed in questo disco ci sono giovani uomini sensibili e malinconici, ragazze vicine e irraggiungibili, l’amore al centro delle vite, le amicizie che durano per sempre, le luci della città, i treni della notte, il sabato sera, il presente difficile e il futuro che non si sa.
Glasgow guardava l’America, l’intimismo e le aspirazioni intellettuali diventavano ingredienti per il pop ed era un modo di fare musica che suonava bene nelle radio sia di giorno che di notte, e ogni tanto anche in tv. Anche quelli che sembravano solo modelli in sfilata in fondo ci credevano: se anche gli fossero toccati solo quindici minuti di popolarità, dovevano essere quindici minuti pazzeschi, curati come se si dovesse fare la Storia. Tutto questo tempo per capire che c’era bellezza e profondità anche in quei suoni sintetici ed in quella superficialità ostentata. Ora che anche questa musica che sembrava non avere un futuro è diventata classica, è tanto più preziosa all’ascolto. Anche da fuori,Hats si ammira come un gioiello, come un’opera di cui essere fieri d’essere stati contemporanei. Fieri di essere usciti vivi dagli anni 80. Lo so, è la Retromania, è una malattia che ti fa vivere nel passato. Ma sto benissimo, ed ho così tante cose da fare che non so se basterà tutto il futuro…
Qualche anno fa ho provato a mettere insieme un disco immaginario degli Husker Du, selezionando i miei pezzi preferiti dai primi dischi solisti di Bob Mould e Grant Hart, usciti nel 1989 a pochi mesi di distanza. Un Intolerance Workbook splendido e intensissimo, sulla carta. E invece no: non funzionava per niente. Combinate in sequenza mista come negli album degli Husker Du, queste canzoni di Mould e Hart si respingevano a vicenda, così come evidentemente era avvenuto nella loro amicizia. Forse è lì che ho capito emotivamente che non sarebbero mai tornati insieme (oltre ad essere razionalmente convinto che le reunion, in generale, sarebbe meglio evitarle).
Perché non si riformeranno MAI, gli Husker Du. Mettetevi il cuore in pace. Qualche settimana fa, dopo che erano circolate voci sicure di un imminente annuncio, Facebook mi ha suggerito di chiedere l’amicizia a Greg Norton. Il terzo uomo (oggi Sales Rep presso Bourges Imports; i baffoni ci sono ancora). Non ho perso l’occasione, e il giorno dopo lui l’ha accettata. E allora gli ho scritto un messaggio: Thank you Greg! (Please please please never do it! Keep it as good as it’s been… Just reissue the catalog!)
Non mi ha risposto.
(Non va sempre così male, in questi goffi approcci virtuali con i social cult heroes… Qualche giorno dopo sono diventato “amico” di Dan Stuart dei Green On Red e l’ho ringraziato postandogli la foto delle album cover che ho appeso in soggiorno, tra cui c’è quella stupenda di The killer inside me; lui mi ha elargito un “Pleasure is mine Andrea…”.
Ma il social nod di cui vado più fiero è questo. Sì, è proprio LUI.)
Intolleranza. Era la parola chiave che aveva segnato la fine di quel rapporto così forte, di quella tensione positiva che accese milioni di luci e che poi si spense di colpo. Intolleranza, in questi 25 (+1) anni, è diventata una delle parole chiave dell’umanità, la deriva del vivere civile e l’ostacolo più grande per la conoscenza. In questa parola, Grant Hart metteva insieme i due veleni da cui quest’album è indelebilmente segnato: il risentimento, che è più amaro quanto più si è stati vicini alle persone verso cui è diretto; e la droga pesante, che lo ha seguito come un’ombra per gran parte della sua vita (Reeperbahn, Christiania, Pigalle, all the same). Onesto e spietato come pochissimi altri album nella storia, toccante nel descrivere l’infelicità più profonda e il più profondo desiderio di felicità.
Freezing
Like an icicle bending
Like a rain cloud rumbling
Like a sidewalk mending
Like a shroud dissolving
Like a snowflake sailing
Like an arrow splitting
Like an egg-shell sailing
Like a sparrow I’m using
All of my senses
You know I am
I’m using
All of my senses
I testi, certo. Ma soprattutto è il suono di queste canzoni ad infondere quel senso di malessere e di santa voglia di uscirne. Registrato malissimo, e con gli strumenti suonati praticamente tutti da solo, con tutti i suoi sensi. Un’esperienza esistenziale da condividere, o da lasciar perdere se non si riesce a comprendere il cuore di queste canzoni. Le prime cinque, una in fila all’altra, fanno una delle mie side A preferite in assoluto. Tutte melodie penetrate negli strati più profondi. Ma soprattutto, quella.
Jerry gave us a number
Jerry gave us a place to stay
And Billy got hold of a van and a man
And we moved in the very next day
To 2541
Big windows to let in the sun
2541
Oh well I put down that money
When I picked up the keys
We had to keep the stove on all night long
So the mice wouldn’t freeze
You put our names on the mailbox
And I put everything else in the past
It was the first place we had to ourselves
I didn’t know it would be the last
At 2541
Big windows to let in the sun
2541
Now everything is over
Now everything is done
Everything’s in boxes at
2541
Oh…
Things are so much different now
I’d say that the situation’s reversed
It’ll probably not be the last time, that
I have to be out by the first
At 2541
Big windows to let in the sun
2541
Big windows to let in the sun
Let in the sun
Let in the sun
Let in the sun
At 2541
2541 è la prima canzone dopo gli Husker Du, uscita su singolo circa un anno prima dell’album. Un piccolo classico che descrive alla perfezione la potenza del ricordo, la forza che fa rivivere luoghi persone parole opere omissioni. E quando la potenza di un ricordo si attacca alla potenza di una canzone, è allora che arrivi alla felicità vera: valeva la pena di essere vissuta la tua vita, quando hai un nodo in gola e un sorriso che non ti puoi levare. Le cose sono molto diverse adesso diresti che la situazione si è capovolta e probabilmente non sarà per l’ultima volta che… Ma quelle quattro cifre, per noi, saranno sempre la combinazione per far riaprire quelle grandi finestre, per fare entrare dentro tutto il sole che c’è.
Non so se lo ascolta ancora qualcuno, Intolerance. Nei recuperi quotidiani che affollano le chiacchiere sulla musica, Grant Hart non ritorna mai; per lui nessuna reissue finora, e fino a quando? Eppure tutti quelli che hanno lasciato tracce l’avevano amato tantissimo. Riascoltando You’re the victim, all’improvviso ho capito da dove è saltata fuori la musica scabra e dolcissima di Mark Linkous e dei suoi Sparklehorse. In quell’assolo fischiato da 1′ e 11″ a 2′ e 15″ c’è l’essenza dell’estetica lo-fi e tutta la fierezza e la malinconia da bellissimo perdente che ancora non lo sa quanto potrà diventare brutta e lunga la sconfitta. Finché non arriva il giorno in cui lo vedi e lo capisci e quel giorno è la differenza tra chi non ce l’ha fatta come Mark e chi è arrivato fino a qui, perché non poteva essere già tutto finito.
I dischi nuovi di Bob Mould vanno ancora a 200 all’ora come se i cinquant’anni fossero il trampolino da cui spiccare il volo dopo la lunghissima rincorsa iniziata a vent’anni. L’ultimo disco pubblicato da Grant Hart due anni fa segue un ritmo tutto suo, lento irregolare inarrestabile, ed è un altro modo di avere cinquant’anni, tenendo i piedi per terra e lo sguardo fisso in cielo. Non torneranno mai insieme gli Husker Du, ma non se ne sono mai andati, non se ne andranno mai: sono il nostro decalogo, le nostre tavole della legge. E la rivoluzione comincia sempre a casa, sempre nello specchio del bagno. Tutti i giorni, anche domani.
Questo post è dedicato ad Eddy Cilìa,
con l’augurio più affettuoso di una guarigione rapida e completa.
Mentre riascolto Gimme gimme teenage head sul passante Saronno-Lodi, nonostante gli auricolari a volume quasi max, mi entrano nelle orecchie le voci di una classe intera (probabilmente una seconda superiore) stipata tra la scala della parte alta del vagone e lo spazio davanti alla porta. Tornano da Expo e l’eccitazione e gli ormoni li fanno parlare più forte del rock’n’roll ruvido dei Primal Scream del secondo album.
Voglio anch’io, vogliamo ancora quello che chiedeva Bobby Gillespie? Una Testa Da Teenager? È questa roba che sta vociando alle mie spalle? Non stiamo a dilungarci su come l’adolescenza di oggi sia radicalmente diversa da quella di questi qua: accordiamoci sul fatto che almeno una metà delle rivendicazioni generazionali e dei luoghi comuni di noi vecchi tromboni sia la verità. E allora diciamolo forte e chiaro: la nostra Testa Da Teenager era una cosa completamente diversa. Completamente. Però la domanda rimane: la vorrei ancora la mia Teenage head?
I Primal Scream avevano fatto un primo album sublime. Davvero: doveva succedere a loro quello che sarebbe successo poco dopo agli Stone Roses. Invece persero tutto in una volta: contratto con la Wea e pole position tra le indie band. Nell’89 Bobby Gillespie aveva già 27 anni, che negli anni 80 erano già una certa età, che se non eri salito ancora sul treno giusto quasi sicuramente non ce l’avresti fatta mai… Misero insieme quest’album stranissimo, pieno di difetti, secondario rispetto ai dischi più importanti della loro discografia, ma al quale io sono affezionatissimo. Amato proprio per i suoi difetti, un grande, orgoglioso, meraviglioso chissenefrega & vaffanculo.
I pezzi più potenti e melodici dei Ramones e le ballate più malate e struggenti dei Rolling Stones: letteralmente e strettamente questo, nient’altro. Per qualcuno può essere il grado zero di originalità, e così legittimamente decidere di passare oltre. E invece è il sovraccarico momento di sospensione prima del Big Bang. I Primal Scream scintillanti degli anni ’90, la band passata alla storia per aver inventato la combinazione perfetta tra rock e dance, il gruppo più ferocemente alla ricerca del Futuro, nascono da questa brevissima raccolta di artigianato rock’n’roll povero ma bello. Personaggi bruciati, disperatamente alla ricerca della loro identità, che si attaccano con tutta la dedizione possibile ai basics della loro vita musicale. Perché è così, e sarà sempre così: per trovare il tuo futuro devi partire dal tuo passato.
È l’inspiegabile magia di I’m losing more than I’ll ever have. Una delle canzoni della vita subito dal primo ascolto. Prima ancora di sapere che da lì sarebbe partito il missile di Loaded e la nostra generazione di sfigati si sarebbe ritrovata in orbita, tutti bellissimi navigatori di stelle anche senza muoverci dai nostri buchi di provincia. Un arpeggio di chitarra ed una voce che si adagiano sull’anima come un pezzo di te che ritorna perfettamente al suo posto. Una canzone triste, dura, spaccacuore, per stare male. E stare male non è mai stato così bello. Mai più.
Era bellissima già così. Poi ci fu appunto il flash ultra psichedelico di riconoscerla nell’ultra groove di Loaded. Ma il suo posto vero rimane in mezzo a queste psychocaramelle al gusto di CBGB’S e di Beggar’s Banquet, melodiche e indimenticabili come le hit di Deejay Television, la Dark side del Pop che poteva essere e non è stato. Anzi, che sarebbe arrivato, molto meno Dark e più Pure and Perfect, a un certo punto degli anni 90, quando però avevamo anche noi un’altra età…
Ivy Ivy tu mi distruggi. Sei solo pelle morta per me. Voglio urlare voglio gridare quando vedo il tuo sorriso elettrico non credo in Dio o nel Peccato Originale voglio solo toccare e assaggiare la tua pelle quando ti guardo mi viene il blues del vampiro dai baciami via i miei giorni più scuri. Sei davvero troppo Dark per importartene.
Nobody can help you when you’re this far down
Nobody can help you when you’re this far down
Nobody can help you
Nobody can help you
Nobody can help you when you’re this far down
No one but you
Nobody but you
Nobody but you
Nobody but you
Wendy Wendy oh Wendy oh Wendy. Hai detto che uccideresti se servisse a cambiare il mondo. Come on, come on, come on, come on. Non ho bisogno della religione Gesù non può salvarmi io non prego nessuno tranne quella che amo.
And I say
Baby baby baby I love you
Baby baby baby I love you
Baby baby I believe in you
Correndo a perdifiato verso l’autodistruzione, i Primal Scream che dicevano di non credere in niente vennero salvati dal Rock’n’roll, nella più perfetta incarnazione del vangelo secondo Lou Reed. E si sono portati dietro molti di noi, qualcuno solo per qualche anno e qualcuno, come me, fino ad oggi. I Primal Scream sono tra i pochi dai quali, ancora adesso, mi aspetto nuovi Album Della Vita, come due anni fa con More light. Tra i pochissimi compagni di strada di questi 25 (+1) anni, ognuno col suo viaggio ognuno diverso, con cui possiamo condividere un’attitudine sana (It’s allright, It’s OK, You can do just what you want to), un po’ di rabbia quando serve e il senso del tempo: il dolore quotidiano per quello che perdiamo, che è sempre più di quello che mai avremo.
Anche quando sembra troppo tardi. Anche quando nessuno crede più in noi. Anche quando non ci credi più nemmeno tu. Anche quando te ne sei andato e sembrava che non saresti mai tornato. Anche quando hai tradito tutti e soprattutto te stesso. Anche quando non sai bene da dove ricominciare, ma devi, e allora, da qualche parte, ricominci.
My life’s an open book
You read it on the radio
We got nowhere to hide
We got nowhere to go
But if you still decide
That you want to take a ride
Meet me at the wrecking ball
Wrecking ball
Wear something pretty and white
And we’ll go dancin’ tonight
Libertà. Quando Neil Young è tornato, 25+1 anni fa, ci ha spiegato con una sola parola cos’era successo, e cosa doveva succedere. Avevamo smesso di ascoltarlo, perché lui si era giocato fino in fondo il privilegio di fare dischi senza preoccuparsi di venderli. Con tutto quello che c’era da ascoltare negli anni 80, si poteva mica perdere tempo con i suoi esercizi di rockabilly o di elettronica? Forse ancora peggio quando, come molti altri quarantenni, cercava di suonare “gli anni 80” a modo suo, rovinando per sempre raccolte già non ispiratissime. E però è così, adesso lo sappiamo: ogni uomo fa il suo percorso, e quello di un artista rock deve avere deviazioni e fermate anche in posti dove noi non andremmo mai. È la vita. È la libertà. Poi con Freedom i nostri percorsi si sono nuovamente incrociati, e non ci siamo più persi di vista.
Se pensiamo ai motivi per cui a Neil Young continuiamo a perdonare tutto, basta anche solo Rockin’ in the free world. Può tirare le canzoni 25 minuti con i Crazy Horse, chiudersi in una cabina e registrare un disco inascoltabile, mollare la moglie dopo 36 anni per stare con l’attrice gnocca cinquantenne, scrivere biografie con pagine interminabili sulle sue fisse (automobili e Pono, il suo brevetto per riprodurre perfettamente la musica)… Ma sappiamo che ogni tanto gli scapperanno ancora canzoni ed album, magari non così importanti, ma ancora trasudanti bellezza passione energia. Libertà. Il mondo si divide tra chi si fida di Neil Young e chi invece. A tutti quelli lì, posso solo fare una domanda: te la ricordi la prima volta che hai sentito Rockin’ in the free world? Te lo ricordi, che bello è stato ritrovare Neil Young?
Solo adesso mi sono reso conto di come l’ho ascoltato troppo poco, Freedom. L’ho sempre dato per scontato, con i suoi momenti più memorabili (le due versioni di Rockin’ in the free world, Crime in the city, la cover di On Broadway) ed il resto bello, ma ricordato un po’ confusamente; mentre mi sono legato visceralmente a quasi tutti i suoi incredibili anni 90: Ragged glory e Weld, Harvest moon e l’Unplugged, Sleeps with angels e l’album coi Pearl Jam… Da Broken arrow in poi è iniziata la fase attuale, in cui qualche disco talvolta gli esce male, ma ne fa così tanti che quelli buoni (o ottimi), lo sappiamo, prima o poi tornano sempre. Così tanto Neil Young da ascoltare e riascoltare, che senza farlo apposta ho trascurato proprio Freedom… E adesso riesco ad assaporare la sua incredibile attualità come una novità, come un tesoro nascosto. Per niente scontato. Soprattutto se ti fermi a pensare che, prima di Freedom, mica lo sapevamo che si poteva essere Neil Young.
Prima di Freedom, tutto il rock della Libertà, del Sogno e dell’America infinita era già stato suonato, si poteva solo ricordare. Quell’epoca era andata ed il sigillo era stato proprio Hey Hey My My (anche allora ripetuta due volte, prima acustica e poi elettrica). Rock’n’roll will never die era il testimone passato alla generazione di Johnny Rotten ed a quelle successive, perché è meglio bruciare che scomparire. Gli anni 80 erano stati la porta da attraversare per capire se c’è un modo di stare al mondo oltre al rogo che riduce in cenere o allo spegnimento. Non si esce vivi dagli anni 80? È una delle grandi domande di questa serie. E Neil Young è la più straordinaria delle risposte viventi. Keep on rockin’ in the free world. Un SÍ più forte e resistente del grande NO di Kurt Cobain, o del Grande Niente di Elliott Smith. Le domande non sono mai finite: there’s a warnin’ sign on the road ahead… È questo un mondo libero? Abbiamo ancora carburante? Abbiamo ancora strade da percorrere? Keep on rockin’: è come un comandamento.
The artist looked at the producer
The producer sat back
He said, What we have got here
Is a perfect track
But we don’t have a vocal
And we don’t have a song
If we could get
these things accomplished
Nothin’ else could go wrong.
So he balanced the ashtray
As he picked up the phone
And said, Send me a songwriter
Who’s drifted far from home
And make sure that he’s hungry
Make sure he’s alone
Send me a cheeseburger
And a new Rolling Stone.
Yeah.
Non è nemmeno uno dei suoi album migliori, Freedom. Un mazzo di canzoni in cui stanno in traballante equilibrio tutti i vizi e le virtù di Neil Young, con quelle impossibili combinazioni di ingredienti che può permettersi solo lui, innocenti dolcezze ed insensate aggressioni da un pezzo all’altro, spesso nella stessa canzone. Eppure sempre affascinante proprio per i suoi difetti, per gli arrangiamenti improbabili (che però lo rendono inclassificabile e senza tempo), o per i quasi-plagi dylaniani (Crime in the city sfida addirittura All along the watchtower). Ma è la sua importanza storica a farmelo considerare quasi sacro. Intatta è la sua urgenza di vivere la vita dopo i 40 anni come se fossero i 20. Soprattutto per questo, nessuno mai come Neil.
Well, I keep gettin’ younger
My life’s been funny that way
Perché era così importante che le band indie riuscissero ad avere successo anche al di fuori del ristretto circuito musicale da cui provenivano? Perché ci tenevamo anche noi che qualcuno dei nostri oscuri e sconosciuti eroi fosse ascoltato da un pubblico più ampio? Sembra così assurdo, adesso. Adesso che siamo adulti maturi (o marciti…). Adesso che della musica non importa più quasi niente a quasi nessuno. Adesso che i ragazzi di adesso fanno altro. Ma allora sembrava davvero importante: una questione Culturale, una pulsione verso il Progresso. Springsteen che riempiva gli stadi; centinaia di migliaia di coetanei che adoravano gli U2. Il rock buono finalmente vinceva… avremmo avuto anche noi i nostri anni ’60? La Gente avrebbe finalmente capito, dopo gli abbrutimenti degli anni ’80?
Un flash dell’estate del 1990. Viaggio in InterRail in Irlanda. Alla fine, più autostop che treno… Comunque, un tardo pomeriggio su un treno abbastanza pieno, soprattutto di studenti e pendolari, attraversando un corridoio in mezzo alle file di sedili da quattro con il tavolino, vedo un paio di ragazzi che armeggiano con il walkman ed un mucchietto di cassette, tutte originali e di album indie abbastanza recenti. Ricordo che riconobbi Isn’t anything dei My Bloody Valentine, gli inevitabili Stone Roses, qualcosa dei Wedding Present ed Automatic dei Jesus and Mary Chain. Roba che su un treno italiano non si sarebbe mai vista, mentre lì l’impressione era che quella musica, per noi così semi-clandestina, confinata nei rock show radiofonici notturni per appassionati, fosse per i nostri coetanei consuetudine comune e condivisa nella quotidianità.
I Jesus and Mary Chain fino a quel momento erano stati la forza più trascinante dell’underground britannico: una pietra miliare come Psychocandy, che accese il motore ad una generazione di band indie, poi un secondo album come Darklands, che delineava alla perfezione l’estetica del lato oscuro dell’anima, dai 60s dei Velvet Underground fino agli 80s dei Goth, della 4AD e degli shoegazers a venire. Fondamentali per noi; completamente ignoti per chi a malapena si era accorto degli Smiths. Eppure anche per loro sembrava il momento giusto per fare il grande salto, ed Automatic era l’album giusto per farlo. Una sequenza di canzoni di tostissimo rock’n’roll, con un suono tirato a lucido, in particolare la ritmica, tutta sintetica senza perder quasi nulla della carica sporca di blues e melodie indie pop. In pratica, inventavano i Depeche Mode degli anni ’90, e soprattutto l’estetica rock fusa con la dance che premiò i Primal Scream al posto loro.
E fu così che il treno per i Jesus and Mary Chain passò definitivamente. Quando li vidi dal vivo, nel 1992, erano ancora forti, con un album molto bello come Honey’s dead, ma sembravano una band del passato: erano arrivati i 90s, il rock alternativo era finalmente esploso, ma loro si erano ritrovati clamorosamente scavalcati. A ripensarci adesso, è veramente una storia pazzesca… Tutto ciò che avevano inventato album dopo album aveva alfine trovato un grande pubblico ed un impatto generazionale, e si ritrovarono ad assistere alla festa dalle retrovie.
Il rock dei Jesus and Mary Chain nel 1989 era un frutto al massimo della maturazione, pronto per essere staccato dal ramo per deliziare il mondo intero. Ma la Storia segue i suoi percorsi ed oggi Automatic è considerato un album secondario nelle vicende del rock. E’ la bellezza e nello stesso tempo il limite di questa musica, che ha bisogno di pompare sangue dentro chi la fa e dentro chi l’ascolta, catturando l’attimo del presente in cui deve vivere; e che quando sono passati gli anni può trovare ancora orecchi attenti ed occhi spalancati solo se la Storia che non c’è stata può rinascere nella vita di qualcuno, fosse anche di uno solo. Nel 2015 c’è ancora uno spazio per i Jesus and Mary Chain: sommando i ventenni di oggi con i trentenni, i quarantenni ed i cinquantenni, si riesce ad organizzare una data perfino in Italia. Un paio di mesi fa hanno riempito la piazza di Ferrara, risuonando tutto Psychocandy ed una manciata di classici. Mia cognata Chiara, nata un anno dopo Psychocandy, mi scrive euforica il giorno dopo: “I nostri amici noise rock hanno spaccato (solo metaforicamente, eh)…”. Per cinque minuti l’ho un po’ invidiata… Poi ho pensato che nel 2015 m’interessano di più Ryan Adams e Jackson Browne; che la mia tacca l’ho già segnata nel 1992 e sono a posto così; ma soprattutto che i motivi per esserci di Chiara e di tutti quelli che non c’erano sono cento volte più giusti e sacrosanti di quelli che avrei avuto io. Perchè per me Psychocandy, ed Automatic, e TUTTO quello che hanno fatto i Jesus and Mary Chain, sono stati tra le strade più eccitanti pericolose importanti della mia vita, e passare di lì mi ha segnato per sempre, e mi piace ricordarmeli, e non me li scorderò mai… Ma se arriva un tempo in cui il blues, ogni tanto, ti lascia in pace, va bene così.
Allmusic: una cosa meravigliosa. L’app è uno dei primissimi motivi per possedere uno smartphone. Trovare TUTTO in poche frazioni di secondo. E con giudizi e valutazioni, nel 90% dei casi, condivisibili ed equilibrati. Ma ogni tanto, porca di quella troia. Come vorrei non avere cercato, per curiosità, cosa diceva di Oh mercy. Trestellemmezzo. Il voto preferito del Busca. L’Aurea Mediocrità elargita a piene mani. Ad Oh mercy, porca di quella puttana. “Over the years, Oh mercy hasn’t aged particularly well…”, si stiracchia annoiato Stephen Thomas Erlewine, stremato dal milione e mezzo di reviews redatte. Per lui è invecchiato meglio Empire burlesque, 4 stelle e mezzo ai suoi suoni da discarica anni ’80. E Christmas in the heart vale solo mezza stella meno di Oh mercy…
Sono fisime da nerd musicali, certo, alimentate da questa infinita disponibilità di siti e social network… Però qui l’incazzatura è per me più genuina: perché Oh mercy era grandissimo 25(+1) anni fa, quando riportava Dylan nel cuore di tanti come me; Oh mercy c’è sempre stato, in tutti questi anni, quando avevo bisogno del Dylan giusto per decifrare i vari passaggi nella vita da adulto, con le infinite fini della giovinezza; ed Oh mercy è qua, adesso che ho gli stessi anni di Dylan allora, a dirmi perfettamente le cose come sono e come saranno. Se c’è un centro di gravità in oltre 50 anni di Dylan, secondo me è dentro questo disco. Quanto può fare in stellette non lo so, ma so che invecchieremo, e bene, insieme.
Most of the time
My head is on straight
Most of the time
I’m strong enough not to hate
I don’t build up illusion
‘till it makes me sick
I ain’t afraid of confusion
No matter how thick
I can smile in the face
Of mankind
Don’t even remember
What her lips felt like on mine
Most of the time
La maggior parte del tempo sono esattamente come Most of the time. Riesco a sorridere di fronte all’umanità. Però ci sono anche i momenti, troppi, in cui I’m like all the rest. È proprio così: la mia vita oscilla costantemente tra la traccia 6 e la 7 di Oh mercy, Most of the time e What good am I? Sempre convinto che la prossima volta non sbaglierò, che adesso ho capito, che d’ora in poi… Sempre con gli sprofondi dentro A che sono buono, io? Sempre più maturo e consapevole, ed eternamente adolescente. Perché è così: certi giorni ci sono solo domande, e certi giorni troviamo le risposte. E intanto, le cose sono cambiate.
Things have changed èla canzone con cui, praticamente sempre, apre i concerti in questi ultimi anni di Never Ending Tour. Uscì 10 anni dopo Oh mercy (la scrisse per la colonna sonora del film Wonder boys e vinse anche l’Oscar) ed è forse la The future di Bob Dylan. Non è una profezia visionaria del futuro come il brano di Cohen con cui abbiamo iniziato questa serie, ma una visione del futuro che è arrivato e che ci sfugge di mano ogni giorno. Del resto, il tempo delle profezie per Dylan furono gli anni 60: the times they are a-changin’. E quando finalmente i muri crollarono, la sua nuova vita era già iniziata: un tour che non finisce mai, le canzoni vecchie e quelle nuove che si incrociano, essere Bob Dylan anche a 50, 60, 70 anni. Adesso è chiaro: dopo aver inventato il rock adulto, quello che cambia le vite, da Oh mercy in poi Dylan ha inventato il rock della vecchiaia, vivendo in prima persona la dignità necessaria per non rinnegare nulla di quello che non riusciremo mai a realizzare.
È questa la Grandezza che incontri se vai a vedere un concerto del Never Ending Tour. Ciò che si perdono quelli che ci vanno sperando di rivivere il mito degli anni 60. Dylan non è un artista del passato che mette in scena ricordi ed emozioni di altri tempi. Dylan è uno degli artisti di oggi più appassionanti da seguire: vive il presente, la contemporaneità, perché è un uomo, e la sua vecchiaia non è una diminuzione, o un ostacolo. Il rock che invecchia è una delle cose più interessanti che ci è dato di ascoltare oggi, e non c’è un momento in cui lo capisci meglio di quando alla fine del concerto sei lì che lo applaudi, mentre lui sta immobile a gambe larghe, guarda il pubblico senza dire una parola.
L’ultima volta a Lucca, neanche un mese fa, forse il momento più memorabile è stato quando ha cantato, benissimo, Autumn leaves. Per esprimere il tempo del rimpianto (and soon I’ll hear old winter’s songs) che un uomo vecchio ha, Bob Dylan non ha una canzone sua, o comunque quella che sceglie fa parte del repertorio di Yves Montand, e poi di Frank Sinatra, ed è incredibile come quella voce, la sua voce di vecchio, si moduli perfettamente su quelle parole e quelle note. La situazione di Lucca è una piazza dispersiva, scomoda e distratta, non va bene per un concerto così. Manca la concentrazione necessaria per apprezzare canzoni ed esecuzioni così intime e profonde e solo in due o tre occasioni c’è una risposta del pubblico per i pochi brani noti (comunque rielaborati con il suono denso e raffinato della sua band, completamente assorbita dentro ogni suo cenno e sussulto).
Quella sera resta memorabile anche perchè prima di lui si è esibito Francesco De Gregori. Un’ispirazione fedele e costante da oltre 40 anni, da una distanza più che oceanica, siderale… Vederli uno dopo l’altro mette in evidenza tutte le analogie e le differenze, ma soprattutto la sostanza di cosa, di Dylan, De Gregori ha compreso amato restituito con le sue canzoni. Un modo di stare al mondo, di costruire un’identità di artista precisa ed in continua evoluzione, ed ora di invecchiare in pubblico. DeGregori “copia” Dylan anche nel modo di scegliere canzoni vecchie e nuove e di rappresentarle con la sua voce di oggi, con i suoni che, anche lui, nutre elabora affina ogni volta. De Gregori “copia” Dylan anche nel modo di proporre le sue performance in questo tempo, della Storia e della vita: non un Never Ending Tour perché non può girare il mondo come Dylan, ma un’apertura generosa (e prima, al contrario, continuamente rifuggita) a tutte le situazioni più vicine e facili per il pubblico, tv duetti posti turistici centri commerciali. De Gregori all’outlet di Serravalle (Dio lo perdoni) è la più perfetta interpretazione della forza di affrontare il mondo che Dylan mette in campo da oltre 25 anni con il suo tour infinito. Quella sera a Lucca, De Gregori ha messo con pudore e riconoscenza un’ora della sua arte al cospetto di Bob Dylan: La leva calcistica, La donna cannone, Rimmel… La grandezza di De Gregori è per noi italiani la misura più perfetta della Grandezza di Dylan.
We live in a political world
Where mercy walks the plank
Life is in mirrors, death disappears
Up the steps into the nearest bank
We live in a political world
Where courage is a thing of the past
Houses are haunted, children are unwanted
The next day could be your last
We live in a political world
The one we can see and can feel
But there’s no one to check, it’s all a stacked deck
We all know for sure that it’s real
We live in a political world
In the cities of lonesome fear
Little by little you turn in the middle
But you’re never sure why you’re here
Viviamo in un mondo politico. E’ una canzone del 1989, ma è veramente il baricentro di 50 anni di Dylan. Del ragazzo che omaggia Woody Guthrie alle marce di protesta e del vecchio che chiude il Letterman Show con The night we called it a day di Frank Sinatra. E di tutti i Dylan che ci sono stati in mezzo. Viviamo in un mondo politico, lo stesso mondo che c’era prima di Dylan, lo stesso di quando c’era il Muro e lo stesso di ora che il Muro non c’è più. Viviamo in un mondo politico anche se crollano i Muri ed arrivano le Primavere; e se il coraggio è una cosa del passato, allora è proprio quella la cosa da reclamare indietro. Give me back the courage: così sarebbe stato il chorus di una The future di Bob Dylan, perché è così che ha vissuto tutti questi anni, perché è il coraggio l’unica cosa che può fare la differenza.
Ring them bells for the blind and the deaf,
Ring them bells for all of us who are left,
Ring them bells for the chosen few
Who will judge the many when the game is through.
Ring them bells, for the time that flies,
For the child that cries
When innocence dies.
Ring them bells St. Catherine
From the top of the room,
Ring them from the fortress
For the lilies that bloom.
Oh the lines are long
And the fighting is strong
And they’re breaking down the distance
Between right and wrong.
Le cose sono cambiate. Ogni cosa è rotta. Un sacco di gente soffre per il male della presunzione. Lei è sparita con l’uomo dal lungo mantello nero.
Oh pietà…
Ma c’è una luce che non si spegne mai nel dolore e nell’oscurità di Oh mercy. E’ la quarta dimensione del suono tridimensionale che Daniel Lanois diede a queste canzoni. Un suono incredibile e senza tempo (altro che “non invecchiato particolarmente bene”…), che Dylan ha continuato a perseguire, con i musicisti raffinatissimi ed americanissimi di cui si è circondato in tutti questi anni, con risultati eccellenti, che rappresentano una delle ragioni del fascino del Never Ending Tour. Ma quello che ottenne Lanois in Oh mercy rimane insuperabile, il suo capolavoro in perfetto equilibrio tra le produzioni per gli U2 e per i Neville Brothers.
Lo puoi suonare per tutta la vita Oh mercy, e non ti lascerà mai dentro buio e amarezza. E’ un album che ti riempie come poche cose al mondo e che risuoneresti subito dopo che è finito. Lo porti nell’anima e te lo fai risuonare dentro, come l’eco delle campane di Ring them bells. E a volte, qualcosa che era rotto si aggiusta.
Quanto mi stavano sulle palle, i Beastie Boys. Per me, erano tutto quello che odiavo di più nella musica della mia generazione: roba da ballare, rap senza melodie, volgarità e casino, accozzaglia di stereotipi da “siamo ggiovani e ci interessa solo divertirci”… Il video di (You gotta) Fight for your right (to party) mi dava un fastidio quasi fisico, i milioni di copie vendute acceleravano la sempre più irreversibile discesa agli inferi della musica degli anni ’80. Hang The Dj! Hang The Dj! Hang The Dj!
Tre anni dopo (nel 1989, appunto), lessi su Velvet di questo strano secondo album, diverso e sorprendente. In mezzo c’era stato il trauma radiofonico di Stereodrome che ho raccontato nel post su 3 feet high and rising: il rap non era più il male assoluto, i De La Soul mi attiravano sempre di più, ma questi tre stavano in un mondo troppo lontano dal mio microcosmo indie. Saranno stati anche punk prima di buttarsi nel rap, ma da qui a fidarsi… Doveva passare ancora qualche anno perché il mio percorso si aprisse agli spazi senza confini degli anni ’90. I miei Beastie Boys sono quelli di Ill communication, che non era solo Sabotage, ma uno dei più grandi album di quel decennio così musicalmente ricco. Un caleidoscopio senza genere e con dentro tutti i generi. Ed è a quel punto che, per capire come eravamo arrivati fin lì, andai finalmente alla Boutique di Paul…
È luglio, fa un caldo che più porco non si può, a Milano in particolare. Ma questo disco è freschissimo: 25+1 anni dopo, esattamente come la prima volta (per me) 5 o 6 anni dopo il 1989. La Boutique di Paul è ancora un posto dove si sta freschissimi, l’ambiente più giusto per un’estate in città. È il Sound of Science. Paul’s Boutique è la scoperta scientifica del Ritmo e delle sue infinite combinazioni. Il ritmo come sostanza della musica, il ritmo che entra dentro centinaia di grandi album degli anni ’90 ed oltre. Avanti nel 1989, ed avanti ancora oggi. TUTTI devono pedalare una carriera intera per stare dietro alla valanga di invenzioni che questi tre misero dentro un solo album. Campionamenti e rime che ti travolgono ogni volta, sinapsi che si rianimano anche quando i 36 gradi ti soffocano, battiti cardiaci ed adrenalina come dentro il corpo di un atleta alle Olimpiadi. Non lo so se anche questo è rock’n’roll. Non mi interessa, ma nella mia collezione di dischi DEVE esserci. Il Suono della Scienza non è il mio suono; ma senza, tanti muri nella mia testa non sarebbero mai caduti.
Nella splendida corsa dei 30 anni, nella seconda metà dei ’90, ero convinto che la mia musica del futuro sarebbe stata sempre quella del futuro. Ritmo, suono, scienza. Nuovo millennio, nuove idee, nuova vita… Tutti quei breakbeat che smuovevano le idee, tutti quei bassi che ti facevano allungare lo sguardo più in là… Paul’s boutique era l’inizio di quella cultura del club, quando la dance music divenne anche una cosa seria. Dopo che il muro era crollato, la dance si poteva anche ascoltare ed il rock si poteva anche ballare. La cosa più evidente di Paul’s boutique era che con i frammenti della musica del passato si potevano tirare fuori infinite musiche del futuro. Ecco perchè anche oggi è così avanti: la polverizzazione degli stili che in quei giorni stava iniziando, oggi è nella sua fase più acuta; e quel modo esplosivo di generare dai vecchi ritmi nuovo ritmo è oggi l’unico paradigma culturale rimasto. Con la sostanziale differenza che quel livello di creatività raramente si è ripetuta, e men che meno negli ultimi anni.
Quel che ho fatto poi nel futuro, quello che sto facendo, è stato ritornare al mio suono. Due settimane fa sono andato a rivedere Dylan (e, per la prima volta, De Gregori…). Oggi sto ascoltando il nuovo, trentaseiesimo album di Neil Young. Ma quando ritorno da queste parti, nella boutique di Paul o in qualche altro posto fatto di elettronica e campionamenti, sto bene. Perchè so che nel futuro che mi immaginavo, tutta questa ispirazione, e velocità, ci sono ancora; ed in dosi così elevate che non pensavo sarebbe stato possibile sostenere. Nell’entropia in cui viviamo, le scariche di adrenalina e le vertigini ritmiche dei Beastie Boys oggi sembrano un gioco complicato ed avvincente di cui non ci si stanca mai, ma con delle regole, dei modi per ascoltare e vincere, o degli errori per sbagliare l’approccio e perdere. Il numero di giorni del mio futuro ogni giorno diminuisce di uno. Non c’è più tempo per giri a vuoto in questi Monsanto years; scusate se preferisco trascorrerli con gente di cui mi fido, tipo settantenni incasinati, o coetanei saggi come settantenni incasinati…
Certi dischi sono posti dove andare, e la cosa più bella è che puoi andarci anche quando quei posti non esistono più, o non sono mai esistiti. E forse continuiamo ad ascoltare dischi perché crediamo che qualcuno di questi posti possa esistere veramente.
Nel 1989 Morrissey non pubblicò nessun album; solo alcuni singoli, nessuno dei quali mi esaltò particolarmente, ed uno in particolare rimane tra le cose più imbarazzanti che abbia mai pubblicato (Oujia board, Oujia board). C’è poi quella data. 18 ottobre 1989: Springsteen annuncia la separazione dalla E Street Band. Il Boss e il Moz erano (e sono ancora) agli estremi del mio personale olimpo delle divinità rock, ma in quegli anni ci delusero e ci lasciarono soli, costringendoci a cercare delle altre voci da seguire. Ai tempi ne soffrimmo, ma adesso sappiamo che fu meglio così. L’espansione dei miei confini musicali nel corso degli anni ’90 iniziò anche grazie a quelle assenze.
Ho già raccontato nei 45 45s at 45 come si accese e divampò la mia passione per The The quando uscì Dusk; da lì in poi andai rapidamente a recuperare tutti i 4 album precedenti, a partire dal vinile di Mind bomb, di cui ricordavo benissimo The beat(en) generation. Quel singolo dal messaggio geniale e precisissimo non era bastato a convincermi che Johnny Marr avesse scelto il miglior nuovo partner possibile. Ed anche quando finalmente lo ascoltai tutto per bene, all’inizio lo trovai bello ma non bellissimo. Gli influssi smithsiani erano ridotti al minimo, ed anche se c’era la forza d’impatto di una band (rispetto al ruolo giocato dalle macchine in Soul mining ed Infected), c’era un senso di freddezza che mi teneva a distanza, là dove i colori crepuscolari e notturni di Dusk mi avevano riempito subito il cuore.
Il rispetto per Mind bomb divenne fiducia totale dopo l’11 settembre.
Matt Johnson nel 1989 aveva capito tutto.
Islam is rising
The Christians mobilising
The world is on its elbows and knees
It’s forgotten the message and worships the creeds
Armageddon days are here (again) rivelava le profezie di The future prima della caduta del Muro; rivelava in nome di chi sarebbero stati commessi tutti quei murder; e non perdeva tempo a richiederlo indietro, quel Muro, perché non ci possono essere muri dietro cui schierarsi quando la guerra è dappertutto.
If the real Jesus Christ were to stand up today
He’d be gunned down cold by the C.I.A.
Oh, the lights that now burn brightest behind stained glass
Will cast the darkest shadows upon the human heart
But God didn’t build himself that throne
God doesn’t live in Israel or Rome
God doesn’t belong to the yankee dollar
God doesn’t plant the bombs for Hezbollah
God doesn’t even go to church
And God won’t send us down to Allah to burn
No, God will remind us what we already know
That the human race is about to reap what it’s sown
C’è scritto tutto, per filo e per segno, in Mind bomb. Tutto quello che è successo e che sta succedendo. Dalla guerra del Golfo fino a Charlie Hebdo; e in mezzo sopra sotto, la sconfitta lunghissima, forse infinita, della nostra generazione. E non solo, e non tanto, per le bombe là fuori. Soprattutto per quelle che esplodono nella mente, ogni giorno, a volte uccidendo i pensieri, a volte uccidendo l’amore per chi ci sta accanto, a volte semplicemente terrorizzando e paralizzandoci. Ognuno di noi, uno per uno, uomini e donne e la generazione tutta intera. La bomba della mente: perché la Verità è violenta.
What is evil? What is love?
What is the force that possesses us?
Where is the beauty? Where is the truth?
Where is the force that watches over you?
What is it that makes us ashamed to be white?
(when we close our ears to the sound of machine gun)
And while the niggers of this world are starving
with their mouths wide open
What is it that turns the coins we throw at them
into worthless little tokens?
Why is it that anything on this earth we do not understand
We are pushed onto our knees to worship or to damn?
Those are the rules of religion
Those are the laws of the land
That’s how the forces of darkness have suppressed the spirit of man
That’s why human beings still walk on all fours
Whilst in the presence of their so called superiors
Somethings telling you to wake up and salute
The dangers of obedience and the violence of truth
God is evil, God is love
God is the force that possesses us
God is beauty, God is truth
God is the force that is watching over you
Non sarà la canzone più bella del disco, ma The violence of truth è il suo centro di gravità permanente, e forse anche di tutti questi decenni in cui ci siamo trovati a vivere. E’ tutto in quello sguardo intensissimo sparato nel bianco e nero della copertina, l’incredibile lucidità di questo giovane uomo: Matt Johnson aveva 28 anni, ancora lontano dalla saggezza di mezz’età di Leonard Cohen… Forse succede una sola volta nella vita di vedere tutto così chiaramente, e solo a pochi artisti è dato di riuscire a rappresentare la Realtà senza ombre senza paura senza pietà. Quando poi quello che tocca vedere è l’amore che muore, il coraggio che ci vuole è sovrumano.
Our bed is empty, the fire is out
And all the love we’ve got to give has all spurted out
There’s no more blood and no more pain
In our kingdom of rain
Le voci di Matt Johnson e di Sinéad O’Connor in Kingdom of rain intrecciano i suoni delle menti di un uomo e di una donna che si arrendono e mettono tutto da parte, tutte le cose da dire e quelle da non dire mai più. Mind bomb è un tuffo nelle profondità dell’anima, fino a toccare le Grandi Domande che non vorremmo ma ritornano sempre (Who is it?… WHO IS IT?), e le risposte, che ci scivolano continuamente tra le dita. E’ un viaggio al termine della notte più scura. E solo alla fine, una luce. Piccola, ma che tiene accesa l’attesa di domani. Quando riusciamo a far sì che la nostra debolezza diventi virtù invece di peccato.
Before our juices run cold and our flesh grows old
Let me feed upon your breast and draw closer to your soul
Let me stay with you tonight and I’ll offer you my world
I’ll take you to the angels if you’ll take me to myself
Take me beyond love
Up to something above
Upon this bed, between these sheets
Take me to a happiness beyond human reach
Beyond the grasp of lust
Beyond the need for trust
Beyond the gaze of the sick and the lame
Beyond the stench of human pain
Mind bomb non sta in nessuna lista o enciclopedia del rock, ma è un disco necessario. Odio queste definizioni: “disco inutile”, “disco necessario”. Non esistono dischi inutili; però esistono i dischi necessari. In questo viaggio indietro di 25 anni, per ora solo New York, Workbook e questo. Necessari per me e forse pochi altri, è ovvio, ma non ce n’è mai importato niente. Siamo la generazione sconfitta, ma almeno i nostri dischi non ci hanno mai tradito, ci hanno detto sempre la verità.