50 Discographies at 50 – AFTERHOURS (2/50)

Pop Kills Your Soul (1993)
Germi (1995)
Hai Paura Del Buio? (1997)
Non è Per Sempre (1999)
Siam Tre Piccoli Porcellin (2001) – Live
Quello Che Non C’è (2002)
Ballate Per Piccole Iene (2005)
Ballads For Little Hyenas (2006)
I Milanesi Ammazzano Il Sabato (2008)
Padania (2012)
Folfiri o Folfox (2016)

Poco tempo fa ho trovato uno di quei CD relativamente recenti ma diventati subito abbastanza rari: la raccolta Blues get off my shoulder dei Carnival Of Fools. Riascoltare quelle canzoni (da tantissimi anni sepolte tra le centinaia di cassette stipate dentro varie scatole giù in garage) è stato un flash di quelli potenti: mi sono riproiettato in quella stagione in cui le band italiane erano roba per pochi intimi e indie era una parola gergale straniera proveniente da UK e USA. Nel famoso 1992, 25 anni fa, Religious folk batteva nettamente Cocaine head degli Afterhours, e non solo perchè quest’ultimo era solo un mini-album (chissà se ha già una valutazione da collezione, adesso, l’advance cassette della Vox Pop che Mario mi cedette quando gli passarono il vinile…).

Nel 1993 Pop kills your soul fu un salto di qualità impressionante e stava testa a testa con Towards the lighted town; ma io avrei puntato ancora sui Carnival. Entrambe le band vennero per la prima volta a Radio Lodi: i Carnival da me a Taxi Driver e gli After a Eclettica da Giulio Caperdoni (ospitandoci a vicenda). Tra le domande sempre, inevitabile: e se provaste a cantare in italiano? Quasi scusandosi, Manuel Agnelli raccontava dell’esperimento con Mio fratello è figlio unico. Ok, figo Rino Gaetano, però… Però la prima volta che la sentii, al termine di un double bill con gli Africa Unite al City Square, non sembrava la fine di un concerto: era come se ne iniziasse un altro. All’inizio del ’95 ricordo la copertina di Rumore con i La Crus e i Massimo Volume, le nostre band, la nostra musica, in italiano: fu il segnale che stavolta poteva succedere qualcosa. Almeno per Mauro Ermanno “Joe” Giovanardi ed Emidio Clementi.

Poi uscì Germi.
Trasmettevo tutti i pomeriggi e nel giro di pochi giorni vennero sia Joe che Manuel (con Giorgio Prette). Il giorno di Joe era il mio compleanno e lui mi fece un augurio interrogativo sul libretto del CD. Il mio primo local hero era ancora lui; a Manuel feci autografare solo il CD della radio (chissà che fine avrà fatto…). Eppure giorno dopo giorno gli Afterhours guadagnavano spazio nelle scalette (non solo le mie): Ossigeno, Dentro Marylin, Pop, Mio fratello…

Insomma, furono anni bellissimi, in cui in mezzo a quelle decine, centinaia di dischi formidabili dell’ultimo grande decennio del rock, ci stavano bene anche queste piccole grandi band così legate al nostro piccolo grande pubblico. Fino a quella sera da Psycho: qualcuno chiede di sentire il nuovo degli Afterhours uscito da pochi giorni. Parte 1.9.9.6. e penso subito che siamo in un’altra categoria, quella dove giocano Smashing Pumpkins, Oasis e tutta l’aristocrazia degli anni 90. Sento i commenti su Hai paura del buio? di Stiv Livraghi con i clienti, tra il sarcastico e lo scandalizzato per quell’essere così sfacciatamente rock’n’roll star, il sentirsi traditi per non far più parte della stessa squadra, quella dei Tupelo e di tutti gli oscurissimi beautiful losers della nostra generazione. Vennero ancora a Radio Lodi Manuel e Giorgio, stavolta ospiti di Mario Gazzola a Viaggio al termine della notte con me alla regia: ultracarichi, stilosissimi, lanciati in orbita. Stavano diventando troppo grandi per venire da noi. E noi stavamo diventando troppo grandi per stare alla radio…

Ma la rivelazione importante non fu quella che erano loro i veri predestinati a dominare il nostro rock. Dopo l’esaltazione per tutta quella roba in un disco solo, scoprimmo che c’erano dentro soprattutto le nostre parole perfette. La pelle splendida, il mondo di tasse, la neve al centro dell’inferno, l’errore più geniale, gli architetti, lo scorpione, l’adrenalina, le scatarrate… E così per tutti questi anni, album dopo album. Non so se esiste una band, una discografia tra queste 50, che ho capito perfettamente come gli Afterhours. Io proprio non li capisco, quelli che non capiscono gli Afterhours.

Quando ho scoperto, già dopo un po’ di anni in Confcommercio, che Italo e Brunella erano il padre e la sorella di Manuel, la prima reazione è stata di sorpresa. Poi ho capito ancora meglio. L’alternativo è il tuo papà. Tutta una vita spesa da imprenditore del rock’n’roll. Fondare una band, campare di musica, pagarsi il prossimo disco, produrre altri artisti, organizzare festival, inventarsi spazi e pubblico per una scena intera. E alla fine sacrificare 30 anni di reputazione per diventare un personaggio televisivo.
A 50 anni si può fare, perchè a 50 anni si può fare tutto.
E quando uscirà, il prossimo disco degli Afterhours sarà ancora una volta bellissimo.
Adesso mi dispiace non aver conosciuto meglio Italo; ma sono contento di aver conosciuto Manuel tanti anni fa ed oggi di lavorare con Brunella nella stessa grande organizzazione: persone per cui Lavoro e Rock’n’roll sono parole perfettamente vicine, parole da vivere con passione, energia, generosità, voglia di futuro.

Padania – Afterhours

Mentre guardavamo gli Afterhours ospiti di Gad Lerner all’Infedele, Conventional Wife ha fatto una domanda su Manuel Agnelli: “Ma perchè ha i capelli così?”. Ho risposto con un grugnito infastidito che voleva significare “Che cavolo ne so?” ed abbiamo continuato a seguire il programma. La domanda sui lunghissimi capelli di Manuel mi è poi tornata in mente riascoltando Padania, e mi sono ricordato della prima impressione che mi suscitò 20 anni fa, quando vidi gli Afterhours per la prima volta.

Era l’epoca di Cocaine head, da qualche anno il loro nome circolava con insistenza sulle pagine delle riviste specializzate ed i toni si stavano facendo sempre più entusiastici: si diceva che il loro rock avesse personalità e caratteristiche tali da potersi confrontare con le migliori band alternative americane. Vennero al glorioso Lenz di Terranova dei Passerini: un cascinale adattato a locale rock proprio in fondo al buco del culo della Pianura Padana, gestito sapientemente dal compianto Claudio Galuzzi. Su quel palchetto rasoterra vedevi le band ad altezza naturale insieme a poche decine di persone, per cui se quello che facevano ti colpiva non era certo un abbaglio da effetti speciali. Quegli Afterhours erano un concentrato di etica hardcore ed energia punk ed il loro repertorio incalzava con un gran tiro, a partire dalla mitica, devastante cover di 20th Century schizoid man. E la presenza di Manuel sul palco era già molto magnetica, la voce gridata e melodica nello stesso tempo il suo tratto stilistico. Al termine del concerto, mentre raccoglievano i loro strumenti lo avvicinammo (Mario l’aveva già incontrato in altre occasioni) e scambiando qualche battuta ricordo che mi colpì la gentilezza dei modi in contrasto con la violenza espressiva del set, la naturale, civile compostezza che esprimeva sotto quei lunghissimi capelli scuri.

Negli anni seguenti fu esaltante assistere alla crescita artistica degli Afterhours e vivere “da vicino” tutti i passaggi che li portarono, nel corso degli anni ’90, ad insediarsi al vertice del rock italiano. Nell’estate del ’99, quando li vedemmo allo stadio di Bologna suonare prima di Wilco e Suede come supporter del concerto dei R.E.M., eravamo sugli spalti della curva opposta al palco e da lontanissimo Milano circonvallazione esterna e gli altri pezzi di Non è per sempre rendevano ancora di più l’idea: canzoni così autorevoli ed importanti si imponevano senza più i filtri dell’ambito protetto del circuito alternativo. La dedica di Gardening at night da parte di Michael Stipe fu il suggello simbolico che la vetta era stata raggiunta.

Nel 2012 il fatto che gli Afterhours abbiano realizzato un disco come Padania mi riempie di ammirazione e gratitudine. Non è un capolavoro, è un disco pieno di azzardi e non tutti sono riuscitissimi. Ma proprio con questa ambizione di creare qualcosa di importante per definire quello che ci è successo e quello che siamo diventati in questi anni, è venuto fuori un album affascinante anche per le sue imperfezioni, sul quale si continua a tornare per giorni e giorni senza riuscire ad afferrarlo, e nel quale ad ogni ascolto ci si riconosce sempre di più.

La metafora su cui è costruito il titolo ed il senso generale del disco è molto sottile, rischiosa e coraggiosamente ambigua. Può essere colta pienamente se nella presunta Padania ci si vive, se si è convissuto con modi di pensare diversi e sovrapposti, che a un certo punto qualcuno ha progettato di definire con un pensiero unico, e che a sua volta ha generato azioni e reazioni sempre più avvitate su se stesse, fino all’implosione degli ultimissimi anni con la fine di un regime e l’attuale paralizzante assenza di alternative. Nella parola Padania ci sta dentro tutto: la Lega, Berlusconi, il berlusconismo, la fine della sinistra, la crisi della Chiesa, il crollo della finanza e dell’economia, lo spreco di due o più generazioni… E dentro a tutto questo ci siamo noi, le nostre vite, quello che siamo diventati e quello che facciamo tutti i giorni. La nostra felicità, le nostre infelicità.

Ha ancora senso battersi contro un demone
Quando la dittatura è dentro di te
Lotti, tradisci, uccidi per ciò che meriti
Fino a che non ricordi più che cos’è
Puoi quasi averlo, sai?
Puoi quasi averlo, sai?
Tu puoi quasi averlo, sai?
E non ricordi cos’è che vuoi

Quindici anni fa era liberatorio sentire Giovanni Lindo Ferretti cantare Voglio ciò che mi spetta lo voglio perchè mio m’aspetta. Soli e contro tutti ci sentivamo, ma c’era il conforto di sentire che avevamo ragione e che dovevamo cercare il nostro posto nel mondo. Oggi ci ritroviamo nello smarrimento di questa ballata, perfetta e micidiale nel fotografarci, colti nell’oscena banalità del nostro vuoto. La vanità del nostro lavoro, del nostro soffrire, la dignità offesa dei nostri sogni. Questa canzone sì che è un capolavoro, per come è stata scritta e realizzata. Averla battezzata Padania la rende un frammento di esistenza illuminante e generazionale, in un modo mai vissuto fino ad ora.

Nelle altre canzoni il discorso è più obliquo, ostico, ermetico: la forma canzone viene continuamente deformata e resa accidentata, senza mai uscire dai binari. Gli Afterhours negli anni hanno affinato un modo unico di essere sperimentali, uno stile in cui le deviazioni non sono mai fini a sè stesse e nello stesso tempo i ganci melodici e i riff rock vanno e vengono senza mai fermarsi alle soluzioni più immediate. Un pezzo come Metamorfosi (che apre l’album) non può uscire da qualcuno che si affida al solido professionismo di una lunga ed onorata carriera; bisogna saper cercare le canzoni in posti dove non si era mai frugato prima, scavando sotto parole e squarci, ed epifanie di tanti altri dischi entrati nel DNA. Con libertà e consapevolezza si possono osare citazioni arditissime, come le modulazioni impossibili di Demetrio Stratos: già solo con questo si possono conquistare o perdere intere fette di pubblico (è incredibile come per qualcuno l’ammirazione di uno dei talenti più liberi e aperti di tutti i tempi si manifesti con un atteggiamento di rifiuto degli accostamenti altrui).

Non puoi più decidere come sarai
Non puoi più decidere cosa sarai

Forse la cosa che infastidisce di più i detrattori di Manuel Agnelli è il tono crudo e diretto con cui descrive la realtà, riuscendo quasi sempre ad esprimere tantissime sfumature e a trovare le precise parole che definiscono uno stato della persona, o di tutta una generazione (anzi due). Sparare dritto per mirare in alto: un’attitudine che in Italia può non essere capita, anzi spesso viene ignorata, irrisa, ostacolata. Io me la ricordo bene la determinazione di Manuel in quegli “anni importanti” sia suoi che miei, quando mi capitò di incontrarlo diverse volte, per interviste radiofoniche o in occasione di concerti, tra il ’93 di Pop kills your soul e il ’97 di Hai paura del buio. Gli anni in cui, con la scelta di passare dall’inglese all’italiano, l’obiettivo era di portare le vendite da 2/3mila a 5.000 copie… Di fatto incontravo un coetaneo che come me doveva ancora fare le scelte “definitive” e che perseguiva il suo percorso musicale con precarietà e lavori di ripiego. Essere stati invitati negli States ed avere recensioni eccellenti su Rumore e Rockerilla erano certamente grandissime figate, ma se fosse finito tutto lì? Parlando con Manuel sentivi la consapevolezza, calma e risoluta, di essere in grado di giocarsela ai massimi livelli. Davanti ai microfoni di una piccolissima radio di provincia, descriveva con orgoglio tranquillo quelle canzoni che arrivavano a pochi ma erano destinate a molti. Come direbbe oggi: Niente panico se sei ancora qui… Trova un destino che ti porti con se prima che quello di un altro trovi te. Ma niente panico rimani così…

Ecco, questo modo di costruirsi la propria arte e la carriera con le proprie forze, un passo dopo l’altro, con il lavoro artigianale su ogni album, canzone per canzone e parola per parola, conquistandosi un fan alla volta e portandoseli dietro tutti, fino a qui, è qualcosa che non ti può togliere nessuno. E che ti porti dietro sempre, nel prossimo concerto, nel prossimo disco. Alla cassa della Fnac, alle mie spalle, una “ragazza” con qualche anno più di me, appena prima o appena dopo i 50, con in mano la versione deluxe di Padania. 60 Euro. Ho fatto in modo di non incrociare il suo sguardo, così come non ho avuto nessun punto di contatto con le centinaia e centinaia di ragazzi sopra e sotto i 20 anni che hanno stipato tutto il piano degli showcase e che giravano su e giù per le scale mobili. Forse i capelli lunghi di Manuel sono per loro, per farsi identificare come un leader alternativo da seguire. O forse sono solo per lui, per continuare a riconoscersi nel giovane uomo di 20 anni prima, per continuare a ricordarsi cos’è che vuole.