25 25 (+1) after 89: PAUL’S BOUTIQUE – BEASTIE BOYS (18/25)

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Quanto mi stavano sulle palle, i Beastie Boys. Per me, erano tutto quello che odiavo di più nella musica della mia generazione: roba da ballare, rap senza melodie, volgarità e casino, accozzaglia di stereotipi da “siamo ggiovani e ci interessa solo divertirci”… Il video di (You gotta) Fight for your right (to party) mi dava un fastidio quasi fisico, i milioni di copie vendute acceleravano la sempre più irreversibile discesa agli inferi della musica degli anni ’80. Hang The Dj! Hang The Dj! Hang The Dj!

Tre anni dopo (nel 1989, appunto), lessi su Velvet di questo strano secondo album, diverso e sorprendente. In mezzo c’era stato il trauma radiofonico di Stereodrome che ho raccontato nel post su 3 feet high and rising: il rap non era più il male assoluto, i De La Soul mi attiravano sempre di più, ma questi tre stavano in un mondo troppo lontano dal mio microcosmo indie. Saranno stati anche punk prima di buttarsi nel rap, ma da qui a fidarsi… Doveva passare ancora qualche anno perché il mio percorso si aprisse agli spazi senza confini degli anni ’90. I miei Beastie Boys sono quelli di Ill communication, che non era solo Sabotage, ma uno dei più grandi album di quel decennio così musicalmente ricco. Un caleidoscopio senza genere e con dentro tutti i generi. Ed è a quel punto che, per capire come eravamo arrivati fin lì, andai finalmente alla Boutique di Paul…

È luglio, fa un caldo che più porco non si può, a Milano in particolare. Ma questo disco è freschissimo: 25+1 anni dopo, esattamente come la prima volta (per me) 5 o 6 anni dopo il 1989. La Boutique di Paul è ancora un posto dove si sta freschissimi, l’ambiente più giusto per un’estate in città. È il Sound of Science. Paul’s Boutique è la scoperta scientifica del Ritmo e delle sue infinite combinazioni. Il ritmo come sostanza della musica, il ritmo che entra dentro centinaia di grandi album degli anni ’90 ed oltre. Avanti nel 1989, ed avanti ancora oggi. TUTTI devono pedalare una carriera intera per stare dietro alla valanga di invenzioni che questi tre misero dentro un solo album. Campionamenti e rime che ti travolgono ogni volta, sinapsi che si rianimano anche quando i 36 gradi ti soffocano, battiti cardiaci ed adrenalina come dentro il corpo di un atleta alle Olimpiadi. Non lo so se anche questo è rock’n’roll. Non mi interessa, ma nella mia collezione di dischi DEVE esserci. Il Suono della Scienza non è il mio suono; ma senza, tanti muri nella mia testa non sarebbero mai caduti.

Nella splendida corsa dei 30 anni, nella seconda metà dei ’90, ero convinto che la mia musica del futuro sarebbe stata sempre quella del futuro. Ritmo, suono, scienza. Nuovo millennio, nuove idee, nuova vita… Tutti quei breakbeat che smuovevano le idee, tutti quei bassi che ti facevano allungare lo sguardo più in là… Paul’s boutique era l’inizio di quella cultura del club, quando la dance music divenne anche una cosa seria. Dopo che il muro era crollato, la dance si poteva anche ascoltare ed il rock si poteva anche ballare. La cosa più evidente di Paul’s boutique era che con i frammenti della musica del passato si potevano tirare fuori infinite musiche del futuro. Ecco perchè anche oggi è così avanti: la polverizzazione degli stili che in quei giorni stava iniziando, oggi è nella sua fase più acuta; e quel modo esplosivo di generare dai vecchi ritmi nuovo ritmo è oggi l’unico paradigma culturale rimasto. Con la sostanziale differenza che quel livello di creatività raramente si è ripetuta, e men che meno negli ultimi anni.

Quel che ho fatto poi nel futuro, quello che sto facendo, è stato ritornare al mio suono. Due settimane fa sono andato a rivedere Dylan (e, per la prima volta, De Gregori…). Oggi sto ascoltando il nuovo, trentaseiesimo album di Neil Young. Ma quando ritorno da queste parti, nella boutique di Paul o in qualche altro posto fatto di elettronica e campionamenti, sto bene. Perchè so che nel futuro che mi immaginavo, tutta questa ispirazione, e velocità, ci sono ancora; ed in dosi così elevate che non pensavo sarebbe stato possibile sostenere. Nell’entropia in cui viviamo, le scariche di adrenalina e le vertigini ritmiche dei Beastie Boys oggi sembrano un gioco complicato ed avvincente di cui non ci si stanca mai, ma con delle regole, dei modi per ascoltare e vincere, o degli errori per sbagliare l’approccio e perdere. Il numero di giorni del mio futuro ogni giorno diminuisce di uno. Non c’è più tempo per giri a vuoto in questi Monsanto years; scusate se preferisco trascorrerli con gente di cui mi fido, tipo settantenni incasinati, o coetanei saggi come settantenni incasinati…

Certi dischi sono posti dove andare, e la cosa più bella è che puoi andarci anche quando quei posti non esistono più, o non sono mai esistiti. E forse continuiamo ad ascoltare dischi perché crediamo che qualcuno di questi posti possa esistere veramente.

45 45s at 45: SABOTAGE – BEASTIE BOYS, 1994 (31/45)

Puoi anche essere il Dj più sfigato del mondo, confinato in una radiolina di provincia, o alle prese con serate poco frequentate in locali senza reputazione. Ma quando metti su Sabotage dei Beastie Boys (anche oggi, presumo, come allora) ti senti il n° 1, il più potente, il più cattivo, forse anche il più bello… Magari non ti sta ascoltando nessuno, ma ciò che veramente conta è come ti senti tu.

Sabotage è una di quelle canzoni indiscutibili, in grado di essere amate anche da chi non conosce i Beastie Boys e non ama il rap. E’ un tale muro di chitarre elettriche, ritmo a spirale e voci incazzate che non può non arrivare. Picchia duro e centra il bersaglio, infallibile ed inattaccabile dal tempo: Sabotage sarà un pezzo “moderno” anche nei prossimi decenni.

Una parte di questo mix perfetto di ingredienti si deve al video ed alla sua estetica divertentissima e sofisticatissima, in grande sintonia con lo stile cinematografico che si stava affermando con Quentin Tarantino e con Pulp Fiction, uscito proprio in quei mesi. Sabotage con quelle immagini faceva capire chi erano i Beastie Boys e cos’erano capaci di fare: Paul’s boutique ed Ill communication sono album obbligatori per qualsiasi collezione, pieni zeppi di invenzioni musicali inesauribili.

La morte di Adam Yauch, pochi mesi fa, ha fatto riflettere su una delle figure più rispettate e carismatiche del rock degli ultimi 30 anni, e sulla sua totale libertà di pensiero artistico e morale. Uno di quelli per cui si può essere fieri di far parte della stessa generazione.