50 Discographies at 50 – HUSKER DU (18/50)

Everything Falls Apart… And More (1983)
Metal Circus (1983)
Zen Arcade (1984)
New Day Rising (1985)
Eight Miles High / Makes No Sense At All (1985)
Flip Your Wig (1985)
Candy Apple Grey (1986)
Warehouse: Songs And Stories (1987)
Workbook (1989) – Bob Mould
Intolerance (1989) –  Grant Hart
Black Sheets Of Rain (1990) – Bob Mould
The Last Days Of Pompeii (1991) – Nova Mob
Copper Blue (1992) – Sugar
Beaster (1993) – Sugar
The Living End (1994)
Nova Mob (1994) – Nova Mob
File Under: Easy Listening (1994) – Sugar
Besides (1995) – Sugar
Ecce Homo (1995) – Grant Hart
Bob Mould (1996) – Bob Mould
The Last Dog And Pony Show (1998) – Bob Mould
Good News For Modern Man (1999) – Grant Hart
District Line (2008) – Bob Mould
Life And Times (2009) – Bob Mould
Live At ATP 2008 (2009) – Bob Mould Band
Hot Wax (2009) – Grant Hart
Oeuvrevue (2010) – Grant Hart
Silver Age (2012) – Bob Mould
The Argument (2013) – Grant Hart
Beauty & Ruin (2014) – Bob Mould
Patch The Sky (2016) – Bob Mould

Lo so che voi ce l’avete già e io invece no. Alcuni di voi se lo meritano, altri un po’ meno. Come ha dichiarato Greg Norton a Mojo: gli Husker Du, anche quando erano insieme, non sono mai stati popolari come adesso. E così Savage Young Du, il cofanetto di 3 CD straripanti di inediti dei primissimi anni, pubblicato poche settimane dopo la morte di Grant Hart, è andato subito esaurito. E io sono rimasto senza. C’è in giro qualcuno che ha la mia copia e che probabilmente non ha neanche un quinto degli album di questa Discography… Ma lo perdono; anzi, sono contento per lui (o per lei… anche se gli Husker sono una band “da maschi”). Ho aspettato 30 anni per ascoltare queste rarità. Posso aspettare tranquillamente la ristampa.

Paolo, amico da una vita, compagno di avventure radiofoniche e autore segreto di abilità fulminante, qualche giorno fa ha messo su Facebook questa riflessione che condivido.

Breve storia di cosa sia capitato alle nostre vite.

1994. Volendo possedere il disco di cui sotto (foto dello schermo dell’iPhone: Shhh dei Chumbawamba), con mezzo a motore mi recai nell’apposito esercizio commerciale. Non essendo richiesto sul mercato italiano, ne ordinai l’importazione. Dopo circa tre settimane andai nuovamente al negozio di dischi, pagai in contanti e ritirai il vinile. Giunto a casa, in poltrona, colmo di letizia, ascoltai la puntina friggere allegra.

2017. Mi torna desiderio di ascoltare questo vecchio album. Guidando (lo so, non si fa), prendo lo smartphone e in iTunes digito solo Chu. Immediatamente compare l’oggetto del desiderio. Tre tocchi sul touchscreen, mediante scansione e riconoscimento facciale completo l’acquisto. Quattro minuti e l’intero disco è automaticamente inserito tra le playlist presenti nel telefono. Via Bluetooth la macchina inizia a riprodurre il tutto, con suoni digitali impeccabili.

Pare, forse pare, suonassero meglio nel 1994….

Tutto suonava meglio, nel 1994. Fu anche l’anno in cui uscirono più Husker album, fra live postumo, Sugar e Nova Mob. Paolo oggi è younger than yesterday, mentre io qua vado avanti a ignorare che il cofanetto lo potrei scaricare, ascoltare in streaming o trovare in rete. E invece no: quando il Libraccio o Buscemi potranno riordinarlo, lo prenderò.

Ieri Paolo compiva gli anni. Gli ho mandato un sapido messaggino di auguri, in cui tra l’altro gli ho scritto questa affettuosa presa in giro: “Per festeggiare, digita HU sul tuo tastierino, esibisci il faccione e sparati These Important Years from your daughter School to dovecazzovaioggi“.

Well, you get up every morning
And you see, it’s still the same
All the floors and all the walls
And all the rest remains
Nothing changes fast enough
The hurry, worry days
It makes you want to give it up
And drift into a haze
Revelations seems to be another way
To make the days go faster anyways
We’re all exchanging pleasantries
No matter how we feel
And no one knows the difference
‘Cause it all seems so unreal
You’d better grab a hold of something
Simple but it’s true
If you don’t stop to smell the roses now
They might end up on you
Expectations only mean you really think you know
What’s coming next, and you don’t
Yearbooks with their autographs
From friends you might have had
These are your important years
You’d better make them last
Falling in and out of love just like…
These are your important years, your life
Once you’ve seen the light, you finally
Realize it might end up all right
It might end up all right now

Nella sua assurdità, la fine della vita di Grant Hart ha chiuso in modo perfetto la storia degli Husker Du. Con la pace dopo 30 anni di guerra e con quella generosa e appassionata ricostruzione delle loro origini (a cui speriamo faccia seguito anche la ristampa di tutto il catalogo, con dentro qualche altra sorpresa). Credo che Grant sia morto in pace, non solo con Bob e Greg, ma anche con sé stesso e la sua arte. The argument è stato un canto del cigno toccato dalla Grazia. E anche se i suoi 50 anni non sono diventati 60, tutti i pezzi della sua discografia sono da portare con noi, nei prossimi anni importanti.

E questa storia, la nostra storia, andrà avanti con Bob. A parte il decennio in cui aveva deciso di sbagliare tutto, lui è uno dei pochissimi che non sbaglia più niente. E’ vero, si fa una fatica incredibile a pensare che anche questi siano anni importanti. Ma quando esce un nuovo disco di Bob Mould, io me lo ricordo, io ci credo un po’ di più. “No Husker Du, no Foo Fighters”, dice Dave Grohl. Che sarà un paraculo che ha più successo di quanto meriterebbe, ma questa cosa l’ha sempre detta e ripetuta, fin dai tempi dei Nirvana. No Husker Du, no Andrea (as we know him).

25 25 after 89: WORKBOOK – BOB MOULD (12/25)

workbook

Questo ce l’ho dentro, close to the bone, da 25 anni. Non l’ho mai lasciato e non mi lascerà mai. But look how much we’ve grown… Siamo cresciuti, siamo invecchiati: ha ancora senso trovare la propria identità nei dischi? Spesso leggo persone appassionate, che parlano di musica con competenza, e che tutte assertive, a volte anche un po’ ironiche, puntualizzano che no, oggi no, erano tipiche insicurezze giovanili, come potresti, oggi…
Vorrei sentirmi come loro, potergli dare ragione e dire è ovvio…
Non è vero. Non voglio e non vorrei mai…
Amici, forse (ma forse) del rock non avete capito un cazzo.

Per fortuna leggo anche (poche ma buone) persone con cui posso condividere un personal hero come Bob Mould. Qualcuno che come me ha vissuto un po’ troppi lonely afternoon. Qualcuno felice come me di averlo ritrovato in splendida forma in questi ultimi anni. Gente come me che, con album come Silver age e Beauty and ruin, si ritrova dentro un centro di gravità permanente, in un suono ed in una lingua che abbiamo condiviso in quegli anni importanti. E se è ovvio che prima di tutto vengono gli album degli Husker Du, credo che chi ha continuato a seguirlo fino ad oggi abbia per forza amato moltissimo Workbook.

Fu un trauma che gli appassionati della mia generazione ricordano bene: nel giro di pochi mesi perdemmo gli Smiths e gli Husker Du. E mentre Morrissey si buttò nella sua travagliata carriera solistica con una rapidità stupefacente, Bob Mould (così come Grant Hart) passò attraverso un lungo periodo di silenzio prima di affrontare un nuovo esordio. Silenzio soprattutto interiore. Solitudine vera, di quella che ti fa riempire pagine fitte su qualche taccuino. Poi ne esci e i pezzi che lentamente hai rimesso insieme sono sempre la tua vita, ma con una consapevolezza che non ti ha regalato nessuno, tutta roba tua che ti servirà, a volte subito e altre volte molti anni dopo. Il Bob Mould che si manifestò con Workbook sembrava molto diverso, ma lo riconoscevamo in mezzo a quelle canzoni: qui un assolo che squassava l’andamento meditabondo, là un’accelerazione melodica che ti stendeva come nei migliori momenti di Warehouse e Flip your wig.

I volumi di Workbook si impennano spesso, la voce si rompe in frasi buttate fuori senza respirare, eppure per tutti rimane l’album folk-rock di Bob Mould. Tante chitarre acustiche ed elettriche arpeggiate sotto l’influsso della scoperta di Richard Thompson; soprattutto il cello di Jane Scarpantoni, un suono meraviglioso, terso ed introverso, che ritroveremo in tanti e tanti album americani degli anni ’90. Workbook è anche l’imprinting semisconosciuto di due dei dischi più generazionali di quel decennio: Automatic for the people ed In utero letteralmente non sarebbero esistiti senza il Taccuino di Bob Mould. E soprattutto in quel suo ultimo album, Kurt Cobain portava a compimento la strada tracciata: far implodere un rock tutto riff e graffi melodici, far esplodere i lamenti folk più ancestrali, nello stesso disco, nella stessa canzone, nella stessa persona…

La serena consapevolezza che la somma di tutti quei pomeriggi solitari sono stati i nostri poison years vissuti, sprecati, amati, raccontati dai dischi che ci hanno salvato la vita. Non so esattamente da cosa dipenda, ma credo ci siano soglie di ascolto che alcuni attraversano ed altri no. Ed è in quelle frazioni di secondo che ti può succedere. E allora il rock non sarà solo la musica fantastica della tua giovinezza, ma qualcosa di vitale che accompagnerà anche gli anni avvelenati che verranno dopo.

I throw it all away (Don’t talk to me no more)
The more I think, the less I’ve got to say (I don’t remember you no more)
About these poison years: it’s just a memory.

And every time you knock me down
It’s all that I can do to get up off the ground
Pull myself apart again.

Le canzoni di Workbook non contengono il senso della vita, ma in pochi istanti ti riaccendono dentro la missione della ricerca, la direzione ostinata e contraria che la corrente impetuosa della vita ha frenato troppi giorni, la sferzata che ti rimette davanti alla responsabilità di essere te stesso. Workbook ti dà una delle cose più difficili e preziose che si possano trovare: il senso del peccato. Le colpe che ti lasci dietro, il senso del limite che devi accettare e il senso di quello che devi imparare a superare.

How can you qualify
Difference between a sin and a lie
I see my silver lining in the sky

Eravamo preparati per una vita adulta in cui avremmo trovato veleno, menzogne, venti che soffiano e disperdono. Ma forse tutto questo è veramente troppo. Avremmo bisogno di fermarci, di giocarci una seconda possibilità, di reinventare i nostri destini. Non me l’aspettavo questa fottuta paura del futuro, le schiaccianti ragioni per non credere più a nulla e a nessuno. I know I’m a reasoning guy. Però ogni giorno c’è un disco giusto che puoi ascoltare, Wishing well runs wet and dry, il pozzo è pieno e il pozzo è vuoto, le Conventional Babies hanno ricominciato la scuola…

TOP 5/2012: Silver age – Bob Mould (3/5)

Silver age - Bob Mould

I concerti degli Husker Du in Italia del 1987 (a Novellara e a Torino) sono con gli Smiths a Roma nell’85 quelli che rimpiango di più di essermi perso. Perchè sono stati uno dei miei miti assoluti ed ero anche nell’età giusta per seguirli, ma sono diventato un loro fan appena prima dello scioglimento e comunque non ero ancora così libero di muovermi da poter andare a un concerto dovunque fosse. Fino a 3 anni fa, Bob Mould non era più tornato e col passare degli anni le possibilità sembravano progressivamente diminuire. Quando uscì l’annuncio del concerto al Tunnel il 14 dicembre 2009, fu come se un patto di sangue al quale avevamo comunque tenuto fede potesse finalmente essere siglato.

Erano aaaanni che non andavo al Tunnel… Per i non milanesi, o per chi non c’è mai stato, è il caso di spiegare che il Tunnel nella seconda metà degli anni ’90 è stato la quintessenza del club alternativo. Era ricavato in uno spazio sotto la ferrovia, letteralmente un tunnel, vicino alla Stazione Centrale (via Sammartini, che avevo conosciuto bene negli anni precedenti, quando facevo volontariato con altri amici al Rifugio di Fratel Ettore), e programmava band indie rock e dj set d’avanguardia con jungle, trip-hop e tutto il meglio dell’elettronica. Tra le cose che ricordo di aver visto, Boo Radleys, Gene, Ruby, Santa Sangre, Sparklehorse… Il Tunnel nelle serate sold-out era un concentrato di energia ed eccitazione, l’atmosfera molto più carica e calda di qualunque altro posto di Milano. Era un cortocircuito emotivo amplificato dalla forma e dalle dimensioni ridotte del locale; un effetto inversamente proporzionale a quello generato nelle serate semivuote. Indimenticabile, nel bene e nel male, la serata in cui vidi Mark Eitzel. Da solo con la sua chitarra acustica, si presentò davanti a poche decine di persone in una serata che proseguiva con una dance night. Le sue canzoni di seta ed il suo canto tormentato vennero costantemente disturbati dal vocio della gente che aspettava al bar la fine del concerto e l’inizio del dj set. Nonostante gli anni di esperienza e lo spirito ironico con cui cercava di reagire alla situazione, si percepiva il suo scoramento crescente. Non durò più di 50 minuti, alla fine non ce la fece più e salutò imbarazzato ed umiliato. Ricordo che poco dopo, all’uscita, facendomi largo tra la calca di quelli che entravano per ballare, lo vidi allontanarsi da solo con la chitarra sulle spalle, a piedi in quella squallida strada nella notte milanese, probabilmente bisognoso di smaltire subito quella brutta serata. Fu uno dei momenti in cui compresi più chiaramente la fragilità umana dell’essere artisti, la gloria delle canzoni che avevo amato vissuto trasmesso da una radio unita al fallimento esistenziale di un pubblico che non c’è.

Meglio non rischiare: gli ultimi album di Bob Mould a Milano li avremo comprati io e una decina di irriducibili, ma chi lo sa quanti vecchi fan degli Husker Du potrebbero rispondere al richiamo? Mi muovo subito dopo il lavoro ed arrivo al Tunnel con la pizza in mano quando c’è solo una piccola coda che aspetta davanti alle porte chiuse. Poco dopo entriamo. Caro vecchio Tunnel, non sei cambiato quasi per niente… La musica di sottofondo è Kamakiriad di Donald Fagen: saranno 15 anni che non lo ascolto. Non c’entra una cippa con il Tunnel e con Bob Mould, ma forse anche per questo me lo godo alla grande. Il locale si riempie col contagocce, suona una band di supporto italiana da dimenticare (fatto), vado a mettermi abbastanza vicino al palco; e mentre continua ad andare Donald Fagen, arriva sul palco lui, Bob Mould, cuffietta di lana sopra la pelata e pizzetto, e comincia a sistemare, tutto solo davanti a tutti, le sue chitarre, la pedaliera e accessori vari.

Non è esattamente come quando allo stadio si spegne tutto e parte la musica di Morricone, con tutta la E Street Band che entra, uno per uno, e li vedi spuntare un po’ ad occhio nudo un po’ guardando i maxischermi; e poi alla fine arriva Bruce Springsteen, tutto lo stadio esplode e si parte con Badlands… Qui invece c’è uno che a 50 anni va in giro per il mondo completamente solo, senza mezzo roadie e si allestisce da solo le quattrocose per stare sul palco. C’è una vecchia citazione di Billy Bragg agli esordi: “Quando un artista che gira nei club sale sul palco con la sua chitarra può immaginarsi di essere James Taylor, o Bob Dylan. Io, quando vado su, penso ancora di essere i Clash”. Ecco, per fortuna Bob Mould quando sale sul palco pensa ancora di essere gli Husker Du. Davanti a 100? 150 persone? attacca una dopo l’altra canzoni recenti e piccoli grandi classici dai suoi album solisti e con gli Sugar, ma quando tira fuori i pezzi degli Husker Du è come se il pubblico raddoppiasse e si ricrea l’effetto Tunnel sold out dei giorni migliori: No reservation, I apologize, Hardly getting over it, Something I learned today, Celebrated summer… L’ultima è Makes no sense at all, per 2 minuti e 30 secondi lui ha 26 anni e tutti noi 19… poi torniamo nel 2009, ma il sangue è stato scambiato, il patto rinnovato per sempre.

Altri tre anni volano via e per tutti Bob Mould può restare lì nel pantheon dei migliori anni della nostra vita, al prossimo album diremo ancora un altro sì, ma quello che i fans non dicono è che, in fondo, non ci aspettiamo da lui più nulla di veramente rilevante. Poi però qualche mese fa cominciano a uscire commenti entusiasti sul nuovo album, e non succedeva dai tempi degli Sugar; l’adrenalina sale quando un paio delle firme più affidabili pubblicano recensioni positive poche settimane prima dell’uscita. Come non succedeva da quegli anni, faccio addirittura un paio di giri a vuoto da Buscemi per prendere subito il CD che non è ancora arrivato… Insomma, le aspettative passano da quasi zero a mille e quando finalmente metto le mani su Silver age…

You say you want it, you say you need it,
you say it’s everything you ever wanna be
the star machine is coming down on you.

Uno a zero, Star machine è il primo gol al primo minuto, una partenza da discone come si deve. Ed è subito qui, alla fine del primo pezzo e all’inizio del secondo, che capisci che è vero, è veramente il discone che aspettavamo da 20 anni: come nel concerto non c’è pausa tra un pezzo e l’altro, l’attacco di Silver age è uno di quei ganci a cui non è possibile opporre resistenza, anche perchè quello che Bob sta dicendo è never too old to contain my rage, the silver age, the silver age. Esattamente quello che siamo noi, quello che vorremmo dire e che bello sentire Bob dirlo lui, per noi, così bene. Si gioca una di quelle grandi partite, quelle in cui gira tutto giusto: subito dopo il due a zero arriva il terzo gol, forse il più bello, quello da mettere ad occhi chiusi nel The Definitive Bob Mould. The descent ha la scintilla speciale dei grandi pezzi di Warehouse o di Copper blue, il tiro della melodia, del ritmo, del rumore e le parole più giuste per affondare sotto la superficie e colpirci nel profondo:

Now my race is finally run
and as I tumble to the sun
all these dreams I can’t achieve
brought me crashing to my knees.
My descent has now begun,
all the music left undone.
My world, it is descending.

Dove quel che è maledettamente vero è che non ci possiamo fare niente, questa è la discesa e non si torna indietro. Ma c’è tutta la musica lasciata incompiuta, e sono tutte le cose che cercheremo e faremo nella strada che abbiamo davanti, mentre la velocità continua ad aumentare. La grandezza di quest’album è tutta in questo cambio di passo, che è prima esistenziale che artistico, e che consente a Bob Mould di trasformare la continuità stilistica del suo modo di comporre e di suonare in canzoni veramente speciali come quelle che sappiamo. Lo stesso scarto di motivazioni che fa la differenza tra lasciarsi vivere addosso il quotidiano procedere di questa discesa e tenere saldamente in mano le redini della vita, le cose che realmente desideriamo, la musica che vogliamo continuare a cercare.

Così Briefest moment esalta un po’ meno ma tiene altissimo il ritmo, mentre Steam of Hercules lo rallenta ma ci riporta a quelle ballate ebbre di rumore con cui rallentavano gli Husker Du in mezzo alle corse a perdifiato di Zen arcade e di Warehouse: songs and stories. La seconda metà dell’album è solo un poco inferiore, ma con una media mai avvicinata dai dischi di Bob degli ultimi dieci-quindici anni, e con un’altro pezzo da antologia come Keep believing, uno straordinario manifesto di fede nella nostra musica, come un’unica citazione obliqua della generazione Born in the 60’s:

No choice / Can’t leave
I have to keep believing
Bring me thoughts and words, pass me the revolver,
I can see for miles, and everything’s in color.
Rock and roll all night until I feel the thunder,
I got a handle on some complicated fun.

Bob Mould pensa ancora di essere gli Husker Du. Da solo su un palco, o su un disco con un nuovo power trio, è una delle notizie più belle dell’anno appena passato, e di quelli che verranno.

45 45s at 45: COULD YOU BE THE ONE? – HUSKER DU, 1987 (19/45)

Husker Du. Che nome del cacchio (come si diceva in quegli anni)…

Husker Du. Ma pensa, hanno fatto un singolo con una cover dei Byrds, Eight miles high… Mah, con un nome così dev’essere rumorosa ai limiti dell’inascoltabile…

Husker Du. Ma guarda che recensione gli hanno fatto a questo New day rising sul Mucchio Selvaggio… Sarà, ma con quel nome saranno un po’ troppo metal…

Husker Du. Di questo Flip your wig parlano bene proprio tutti… Se solo riuscissi a sentire almeno una canzone… Con quel nome, nemmeno quelli di Stereonotte possono farcela…

Husker Du. E finalmente li ho beccati! Don’t want to know if you’re lonely… Niente male, pensavo facessero più casino, con quel nome…

Husker Du. Incredibile, hanno fatto un altro doppio e per il Mucchio è il loro capolavoro. In effetti a Stereodrome continuano a farli sentire… Could you be the one è fantastica. Certo che è proprio un nome del cazzo (nel frattempo, iniziata l’università, l’emancipazione del linguaggio aveva fatto passi da gigante)…

Husker Du. Allora, c’è anche questa Ice cold ice che è bellissima… E’ un doppio, ma non costa tantissimo… Secondo me sarà veramente bello… Alla fine conta la musica, non il nome…

Husker Du. HUSKER DU! HUSKER DU!!!

Husker Du. Warehouse: songs and stories. Uno dei dischi che mi hanno cambiato la vita. Un disco che ha cambiato la vita a chissà quante persone. Una di queste formò un gruppo con un nome molto più bello: Nirvana. 25 anni dopo, compro ancora i dischi solisti di Bob Mould. Ecco, avere 45 anni e amare ancora i dischi vuol dire anche aspettare il nuovo album di Bob Mould.