One for the road – The Kinks | Born again savage – Little Steven

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Qualche giorno fa, all'”evento del secolo” dei 3 giorni con tutti i grandi sopravvissuti del rock, i Rolling Stones hanno suonato Come together dei Beatles. Nelle intenzioni un omaggio ed una celebrazione di quella grandezza condivisa nei favolosi 60s e nel corso dei decenni in cui il Rock è diventato Classic rock; nei fatti una performance stranamente deludente, che ho interrotto dopo meno di tre minuti su YouTube… Succede spesso quando avvengono queste fusioni a freddo di materie prime preziosissime: la chimica accende la scintilla, ma il fuoco non divampa. È una constatazione che si è amplificata ascoltando, negli stessi giorni, questi Kinks sulla soglia degli anni 80. Per certi versi, la perfezione del rock inglese più grande: come i Beatles ma più Rolling Stones, come gli Stones ma più Beatles, come gli Who ma più Beatles e Stones.

Anche se si fossero riformati, non sarebbero stati comunque invitati alla celebrazione della Meglio Gioventù degli anni 60. Troppo staccati come popolarità, eppure i Kinks sono la quarta colonna di quella prima generazione del rock inglese, e in quella fase di passaggio tra 70 e 80 erano gli unici ad essere ancora rilevanti e a modo loro al passo coi tempi. Se c’è un disco che può rappresentare il perfetto punto di congiunzione fra quei due decenni è questo One for the road. A suo modo, una tappa importante di quel processo di maturazione che la musica rock ha vissuto e di cui oggi conosciamo la vecchiaia (o, per essere meno brutali, la classicità). I fratelli Davies sprigionavano un’energia perfettamente sintonizzata con quegli anni attraversati dal punk e dalla new wave, non solo nei pezzi universalmente considerati progenitori legittimi come You really got me o All day and all of the night, ma anche in quelli meno prevedibili. E quando l’ispirazione non veniva dal punk, spingevano su un hard rock che dei tanti suoni oggi considerati classici sembra quello più immune dai corsi e ricorsi storici. Erano tempi in cui a meno di 40 anni eri considerato vecchissimo, eppure le loro canzoni raccontavano il ventesimo secolo e quella società irreversibilmente cambiata con una classe diverse spanne sopra il livello dei ventenni sulla cresta dell’onda. Confronti generazionali che oggi si sono estremizzati, al punto che possiamo dire che non esistono quasi più punti di contatto. La generazione del rock di fatto ne comprende 3 o 4, si estende su almeno quattro decenni e tutta insieme rappresenta il “prima” di un “dopo” che del rock farà probabilmente, tranquillamente a meno.

Per questo, riascoltate oggi, tra la David Watts dei Jam e quella dei Kinks (eseguita a fine concerto come pezzone di chiusura, proprio a seguito dell’exploit di quella che nel 1980 era la band inglese del momento) non c’è praticamente nessuna differenza. Ma anche se ci provarono ancora per qualche anno a restare nel gruppo di testa del nuovo rock (il video di Come dancing a Mister Fantasy…), i Kinks non erano destinati a questa vecchiaia dorata, in cui gli Stones fanno pace coi Beatles e Paul McCartney fa A day in the life con Neil Young… I dischi solisti di Ray Davies sono tra i migliori esempi di rock over sixty, ma non sono più i Kinks, non interessano a nessuno. Ed è per questo che fa effetto, riascoltare One for the road: perché fa pensare che un altro modo di invecchiare, forse, ci poteva essere. Con un milione di cose da dire forte, con un repertorio da far vivere senza porsi limiti, sapendo anche fare a meno delle Waterloo sunset e delle Sunny afternoon quando ha più senso risuonare le Hardway o le Misfits… E con quella fulminea, spettacolare padronanza del Sacro Graal, il riff: non solo le decine targate Kinks, lanciati a 300 all’ora o subito stoppati per prendere in giro il pubblico, ma anche quelli degli altri, con quelle favolose microcitazioni di Jumping Jack flash, Born to be wild o Baba O’Riley, che celebravano la storia del rock già nel 1980. Una consapevolezza asciutta e autoironica che oggi sarebbe il caso di recuperare, per sfuggire alle megacelebrazioni da centinaia di dollari a biglietto…

La battuta più bella sul Più Grande Weekend della Storia del Rock l’ha fatta Little Steven. Ad un fan che chiedeva perché, in mezzo a quella line up stellare, non ci fossero anche Bruce Springsteen and The E Street Band, ha risposto:

We’re too young to qualify.

Fa ridere, perchè la differenza d’età sarebbe minima. Ma quel criterio di selezione (solo chi c’era già negli anni 60) è effettivamente sostanziale, più forte della differenza d’età. Chi è arrivato dopo, in genere ha avuto rilevanza anche dagli anni 80 in poi ed ha una fanbase molto più trasversale. E’ vero che anche per Springsteen da qualche anno è arrivata l’era dell’autocelebrazione, ma la cosa che impressiona ai suoi concerti è la presenza di parecchi giovani e la rappresentanza molto omogenea di tutte le età comprese tra i 20 e i 70 anni. E’ uno dei motivi per cui i concerti di Springsteen continuano ad essere ancora oggi la cosa migliore del rock: un eterno presente in cui poter credere ancora al sogno, o comunque in cui le sconfitte, le disillusioni e i sogni infranti sono condivisi e trasfigurati in una catarsi che ti fa rialzare la testa e credere nel futuro. Nei due concerti di San Siro dello scorso luglio abbiamo ascoltato quasi tutte quelle grandi canzoni del 1975, del 1978, del 1980, desiderate per anni come in quei bootleg che rimangono la cosa migliore del rock per sempre. La grandezza di Bruce e della E Street Band è quella di suonarle con l’intensità e la consapevolezza degli anni trascorsi, e di non farti mai rimpiangere di non esserci stato, ad un loro concerto tutti quegli anni fa. Soprattutto se guardi il palco sul lato destro e li vedi ancora come allora uno accanto all’altro e accanto a Bruce: Roy Bittan al piano, Gary W. Tallent al basso e Little Steven Van Zandt alla chitarra.

Ho comprato questo Born again savage più per affetto che per reale convinzione: sicuramente l’album più trascurato della sua altalenante carriera solista, anche se ne avevo letto sempre giudizi positivi. È una bomba. Sul serio: lontanissimo da qualsiasi cosa abbiate in mente della sua musica, con o senza Springsteen. Un disco concepito e suonato in formazione power trio, con Adam Clayton al basso (per cui è anche l’ultimo bel disco in cui abbia suonato un membro degli U2) e Jason Bonham alla batteria, cazzuto e tirato come pochi. Il disco della vita per lui, come scrive in modo efficacissimo in queste bellissime note di copertina.

Questo è il disco che avrei fatto nel 1969, se ne fossi stato capace.

Ci sono voluti 20 anni per scriverlo ed altri 10 per buttarlo fuori, ma il tempo cronologico è sopravvalutato, no?
È un tributo ai pionieri dell’hard rock che mi hanno tenuto vivo mentre diventavo grande. I Kinks, gli Who, gli Yardbirds e i tre gruppi che uscirono dagli Yardbirds – i Cream, il Jeff Beck Group e i Led Zeppelin.
È anche una dichiarazione di gratitudine per George Harrison, i Beatles, i Rolling Stones, e i Jefferson Airplane che per primi mi hanno avvicinato alle melodie orientali e alla filosofia ed hanno allargato per sempre la mia coscienza cross-culturale.
Devo anche ringraziare Bob Dylan da cui discendono tutti i testi di canzoni, ed Allen Ginsberg per essere un Buddhista tra le altre cose.
Questo è il quinto ed ultimo degli album politici che avevo programmato quando decisi di realizzare i miei dischi. Volevo saperne di più di tutto quello che succede e scrivere di questo, parlare di questo, sperando nel frattempo di imparare qualcosa su me stesso. Dopo 5 album e 7 anni di viaggiare e studiare e guardarsi attorno ho scritto queste note per l’edizione originale di questo disco.
Viviamo in un folle manicomio. Un pozzo nero di barbarie senza pietà. Ed in questo purgatorio pieno di disagio e bruttezze e violenza e odio e ingiustizia e avidità e menzogne e dolore e frustrazione e confusione ci sono brevi, fugaci momenti di pace e amore e verità e bellezza. Sono rari. Sono a distanza di anni e di chilometri. Ma sono così significativi che rendono la vita degna di essere vissuta. Questi momenti ti danno la forza per affrontare la follia col tuo equilibrio intatto e con lo sguardo fermo e così resisti e sopporti e sopravvivi.
E se sei fortunato, davvero fortunato, riesci a toccare con mano quella forza e restarci attaccato abbastanza a lungo da provare, nel tuo piccolo, a rendere tutto un pochino migliore. Solo un poco più civile e giusto. A servire. E non lo fai per nessun altro perchè nessuno ti ringrazierà o ti ricompenserà o se ne accorgerà. Non prenderti in giro. Lo fai per te stesso. Per la tua anima.
Perchè in questo mondo è l’unica salvezza che potrai mai raggiungere.

E c’è davvero poco da aggiungere. Musica senza tempo, pubblicata nel 1999 come se fossero 30 anni prima o 30 anni dopo. Tutta una vita da mediano della chitarra elettrica che esplode in una suite di inni alla sacra forza del rock’n’roll, come un Lenny Kravitz senza pose da modello, col volume al massimo. Con tutti i difetti del caso: troppo lungo, troppo autoindulgente, completamente privo di buon gusto e di autocontrollo. Però gli vuoi bene anche per questo. Perché come 60, come 30 anni fa, niente e nessuno può battere la semplice, pura, perfetta botta del riff. Poi c’è la poesia, il Nobel a Dylan, l’autobiografia del Boss… Finalmente potremo sentirci rispettabili cinquantenni, con le nostre rispettabili file e pile di conventional records. Ma: it’s the journey, not the destination. Siamo selvaggi che rinascono ogni volta, non dimentichiamolo.

TOP 5 2013

Per me è stato un anno da ricordare più per i concerti che per i dischi (il mio anno migliore in assoluto?).
31 Maggio – Bruce Springsteen, Padova, Stadio Euganeo – Tutto Born to run.
3 Giugno – Bruce Springsteen, Milano, Stadio Meazza – 5° San Siro su 5 since 1985, tutto Born in the U.S.A., tutto lo stadio che si abbassa e poi esplode con Shout.
2 Luglio – Johnny Marr, Bologna, Bolognetti Rocks – Scoperto in pausa pranzo, Conventional Wife benedice la follia Milano-Bologna: NON fermatemi se pensate di averlo già sentito prima.
3 Luglio – Black Crowes, Milano, Alcatraz – La mia prima volta dal vivo con la più grande rock’n’roll band dopo i Rolling Stones.
11 Luglio – Bruce Springsteen, Roma, Ippodromo Capannelle – Gaetano mi porta nel pit per un altro 11 Luglio perfetto, trentun anni dopo quello dell’82: New York City Serenade con la sezione d’archi, 12 minuti da mettere sopra davanti prima di tutta una vita di rock.
4 Novembre – Bob Dylan, Milano, Teatro degli Arcimboldi – Uno dei Dylan migliori in oltre 50 anni di vita di Dylan.
22 Novembre – Waterboys, Milano, Auditorium – Il ritorno dei ragazzi di Fisherman’s blues, bellissimi come 25 anni fa (e sto ancora aspettando il Fisherman’s box…).

Comunque, questi sono gli album del 2013 a cui ho voluto più bene.
In realtà è una Top 5 + 2, con l’aggiunta di Fantasma dei Baustelle (album italiano dell’anno) e soprattutto di mbv dei My Bloody Valentine (che sarebbe dentro tutte le Top 5 dal 1992 al 2012, e quindi anche in questa…).

5. TOOTH AND NAIL – BILLY BRAGG
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Billy è uno di quelli di cui ho comprato sempre tutto, e questa volta ha centrato l’album giusto per il momento che stiamo vivendo. Anni in cui si combatte con i denti e con le unghie, e dove abbiamo un gran bisogno di persone con la saggezza, l’esperienza e la passione per l’uomo che ha lui. Avrebbe anche il carisma e lo spessore per diventare un leader politico, ma è troppo artista per poter compromettere anche di poco l’integrità e l’onestà che da sempre comunica nelle sue canzoni. Trent’anni fa si inventò un modo unico di esprimersi con lirismo punk, poi ha assorbito un secolo di canzone tradizionale americana con al centro Woody Guthrie ed è oggi forse il più credibile esponente dell’inesauribile storia dei cantautori americani (paradossale, con quel suo inestirpabile accento londinese). Qui poi c’è Joe Henry come produttore, ed allora è veramente un punto di approdo definitivo.

Con questi suoni caldi, la solida struttura folk e country delle canzoni ed una varietà di melodie come non si ritrovava dai suoi anni migliori, la voce non bella di Billy si carica di colore e profondità, facendo un notevole salto di qualità. Una voce che si ascolta e riascolta come quella di un amico vero, con cui si fanno volentieri chiacchierate in cui si ritrova la calma interiore e si ascoltano parole che sanno toccare l’anima.

What happens when the markets drop?
If the numbers really don’t add up?
Everyone seeks a safe haven,
As they contemplate their ruin,
The self-proclaimed smartest people in the room
Are trying very hard not to sound craven.

But what if there’s nothing?
No pot of gold to find?
Only the blind leading the blind?

No one knows nothing anymore,
Nobody really knows the score.
Since nobody knows anything,
Let’s break it down and start again.

4. THE ARGUMENT – GRANT HART
Grant_Hart
L’anno scorso scrivevo che su una rinascita di Bob Mould ci avevamo tutti messo una pietra sopra, e ci siamo ritrovati una cosa enorme come Silver age. Quanto a Grant Hart, la pietra sopra l’avevamo messa già dalla seconda metà degli anni ’90: dopo un bel Nova Mob nel ’94, pochissimi album e rarissimi sprazzi della grandezza passata. A un certo punto, di lui era già qualcosa sapere che era ancora vivo ed in grado di fare musica.

Lo stupore che ci ha dato The argument è un’emozione bellissima di cui fare tesoro. Tutti i riflettori quest’anno sono stati puntati sul ritorno di David Bowie, com’è giusto che sia, mentre questa di Grant Hart è una rinascita artistica che raggiunge pochi intimi. Perchè solo chi ha incrociato una storia importante come quella degli Husker Du può sapere quanto certe canzoni ed i loro autori ti possano entrare dentro. Chi ci ha cambiato la vita si merita affetto e gratitudine, e quando viene nuovamente toccato dall’ispirazione, è come se fosse accaduto qualcosa di bello nella nostra di vita, non solo in quella di qualcun altro.

Una pazza idea da vecchi freak del prog, quella di creare un ciclo di canzoni ispirate a Paradise Lost di John Milton… Magari un giorno mi verrà anche voglia di approfondire bene, e di affrontare quel capolavoro della letteratura anglosassone… Per ora, per stare nella mia Top 5 del 2013 è stato sufficiente lasciarsi andare senza problemi a questo lungo flusso di canzoni, a tratti un po’ tortuoso e sgangherato, ma sempre illuminato dalla Grazia. Fin dal primo ascolto si entra dentro l’opera con il piede giusto grazie a Morningstar; poi la tensione non viene mai meno, in miracoloso equilibrio tra una ricchezza di scrittura degna dei più grandi e quel suono povero ma bello che ha sempre caratterizzato il Grant Hart solista fin da Intolerance. E non è solo perchè in mezzo a questi 20 brani ci sono almeno altri 4 o 5 capolavori veri; questo album vedrà crescere il suo status di classico soprattutto perchè butta fuori cose che il Nostro aveva dentro da una vita, risentimento sfogo rivincita rinnovamento che non possono arrivare piano piano o un disco per volta, ma solo tutte insieme, nel modo giusto e definitivo.

3. FANFARE – JONATHAN WILSON
Fanfare
Cinque cose che ho capito di Jonathan Wilson:

1) E’ uno che ci ha messo i suoi anni per crearsi la sua visione del mondo e della musica e che quando è arrivato il suo momento si è alzato e ha deciso che, se si incide un disco, deve essere un discone. Una roba in cui mettere tutto di sè e del proprio mondo, e che richiede a chi l’ascolta un’attenzione di ascolto proporzionale. Un discone come Fanfare ti sgama subito, se lo ascolti con l’approccio da una botta e via che la bulimia spotifaica ti ha inoculato, rocker del 21° secolo… Cominci a giustificarti, a dire che ci si perde, che ti va tutto insieme, che non si riesce a trovare il bandolo, che bisogna ruminarlo… A questi compagni che sbagliano vorrei chiedere: in quale punto esattamente ti viene voglia di toglierlo? No, perché per me è letteralmente impossibile…

2) E’ vero, ricorda troppo troppa roba: David Crosby, Pink Floyd, Grateful Dead, Neil Young, Jackson Browne, Steely Dan, Traffic, Joni Mitchell, ogni volta che lo ascolti ne salta fuori uno nuovo, sempre degli anni ’70. Però ogni volta diventa un po’ più evidente: queste sono grandi canzoni, fottutissime grandi canzoni come quelle degli anni ’70.

3) Un po’ come quando ascoltavamo i primi album di Lenny Kravitz e dicevamo: bello, ma non è la musica di oggi… Lenny era proprio come Jonathan, più Black e Pop ma implacabile nel ricrearti il flash della musica di quegli anni. Comunque non c’è problema: quando risento oggi Always in the run, Mr. Cab driver o It ain’t over ‘till it’s over, mi vengono in mente quegli anni lì, non il 1971. E quando riascolteremo Jonathan WIlson, sarà uno dei pochi artisti che avranno segnato questo tempo.

4) Fin dagli anni ’80 abbiamo accumulato tantissimi dischi che riproducono più o meno fedelmente i suoni dei grandi degli anni ’60 e ’70. Bellini, belli e bellissimi. Jonathan Wilson è il primo e l’unico che ha fatto diventare l’amore per quegli anni che non abbiamo vissuto così reale da riuscire a farlo diventare la sua vita, nel Laurel Canyon e nelle session con i grandi di quell’epoca. Un’identificazione così forte da generare con questi suoni vecchi nuove forme, familiari e mai viste, naturali mutazioni da un cowboy movie ad una dark side of the moon. Musica sognata prima e suonata per davvero.

5) Mi piace, Jonathan Wilson. Ma proprio tanto.

2. THE MESSENGER – JOHNNY MARR
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Un altro a cui non avevamo nulla da chiedere, girati come siamo da 25 anni dalla parte di Morrissey, persi dietro i suoi lampi di genio e i suoi giri a vuoto, le adorazioni sotto il palco e i record di concerti saltati, la repulsione per l’ennesima dichiarazione delirante e l’esaltazione per un’Autobiography che è subito un Classico. Eppure Johnny è il mio uomo, quello che sta dentro tre dei miei 45 45s at 45.

Johnny.
Fuckin.
Marr.

Finalmente ha tirato fuori l’album che avevamo sempre sognato. Un’abbondanza inebriante di riff e ganci come in quei dischi là, lo straniamento di ascoltarli con una voce che non c’è, ma la chitarra, ci conosciamo vero? Se lo può permettere, dopo una carriera intera a fare di tutto per non ripetere nulla di quanto aveva già fatto con gli Smiths, non si è mai capito perchè: forse sarebbe stato troppo facile, o al contrario impossibile. Non so se ne ha altre di canzoni così, da tirare fuori con classe e naturalezza, o se le aveva messe da parte per 25 anni e adesso le ha finite per sempre. Però so un’altra cosa: che è giusto così, che bisogna scacciare via quel pensiero che abbiamo avuto tutti, come sarebbe bello sentire queste canzoni con quella voce… E invece no, la cosa grande è questo modo fantastico di arrivare a 50 anni e decidere che il meglio non è tutto alle spalle, che quello che siamo ora è il sale della terra, Generate! Generate! GENERATE!
Johnny Fuckin Marr, what a big, BIG inspiration…

And a big, BIG thank you to Conventional Wife. Quel modo istintivo che ha solo la persona che ti ama di dirti vai, fallo. E dopo una corsa fino al centro di Bologna, trovarsi a pochi metri, su un palco troppo piccolo per contenere una coolness così gigantesca e vera. NESSUNO potrà mai iniziare un concerto con qualcosa di meglio: Stop me if you think you’ve heard this one before, quel riff e quella chitarra a pochi metri. Overwhelming. E come stanno bene le canzoni nuove insieme a quelle là, come diventano anche di Johnny Marr quelle parole: And if a double decker bus… E come sono nostre, che momento perfetto quel singalong che non finisce mai, solo la chitarra di Johnny e le nostre voci. In una notte in cui ho avuto bisogno di sentirmi uno splendido quarantenne, mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando la musica degli Smiths per la prima volta.

1. MORE LIGHT – PRIMAL SCREAM
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Probabilmente sarò io che ho un problema di arrested development e mi sono fermato al 1999/2000. Ma sinceramente non riesco a capire come si possano avere dubbi: questo è il capolavoro assoluto del 2013, il disco più bello degli ultimi anni. Invece nelle playlist di fine anno è quasi assente (solo al 30° posto in quella di Mojo). Un’ennesima prova dell’estrema frammentazione dei gusti, della completa assenza di un centro gravitazionale che consenta di condividere oggi una visione generale della musica. Relatività.
Niente è reale/niente è irreale.

More light non è il salto oltre il sole oltre il futuro di Screamadelica e nemmeno la violenta accelerazione dentro il 21° secolo di XTRMNTR; ma in una discografia tra le più eccellenti ed eccitanti della storia del rock, si colloca saldamente al 3° posto (quindi prima e meglio di grandissimi dischi come Give out but don’t give up o Vanishing point). Forse gli mancano un paio di singoloni un po’ più “epocali” (eeeh, ma quelli li fanno i Daft Punk… No, grazie) per farlo piacere anche ai più distratti (e meno fan…). D’altra parte un livello medio così alto in tutti i brani di un album, i Primal Scream non l’avevano mai raggiunto, e infatti è obbligatoria la Deluxe Edition, con un secondo CD che aggiunge 6 inediti di pochissimo inferiori al disco “vero”. E se non farà epoca grazie ai singoli, questo More light sarà riascoltato anche tra molti anni per come descrive efficacemente questo tempo e le fortissime tensioni che lo attraversano.

Già avere il coraggio di iniziare con una canzone che si chiama 2013 (Twenty Thirteen, cosa ci ricorda? Massì, questo è l’uno nove nove sei…) fa la differenza rispetto alla miriade di dischi belli (anche bellissimi) che potrebbero essere usciti, indistintamente, 10 anni prima o 10 anni dopo. Poi piazzano una cosa pazzesca come River of pain: capolavoro assoluto, no debate, che già basterebbe a stare nella Top 5 di chiunque. E come terza un’altro potentissimo affresco sulla nostra Storia presente, Culturecide:

View from the carriage
Safe behind glass
Wounded streets of graveyard flats
Dishrag curtains scream of disease
Satellite dish where the window should be
Breeze block prison
Somebody’s home
Looks like it’s been hit by a neutron bomb

Questo disco è il rock come vorrei che fosse, come speravo continuasse ad essere anche dopo i favolosi anni ’90, anche dopo i brividi esaltanti di Shoot speed/kill light che sembrava non sarebbero finiti mai… Invece alti e bassi, come noi, come tutto. Ecco, il rock mi serve ancora, e tanto, per restare acceso e continuare a camminare con la Bestia.
I don’t care about tomorrow when I feel like this today.
Non so se si può capire, non so se è il caso: ma la mia attitudine, oggi, è adeguatamente rappresentata da un individuo con un Nudie suit che si mette le dita sulla testa per fare le corna…

It’s alright, It’s  OK
You can do just what you want to
Take your time, walk away
You can come back if you’re supposed to

Ooh La La…

TOP 5/2012: Wrecking ball – Bruce Springsteen (5/5)

Wrecking ball - Bruce Springsteen

Lasciamo stare i dischi di Springsteen prima della pausa (1988-1991) e dello scioglimento della E Street Band. Sono alla base del nostro modo di essere e di pensare, non si possono confrontare con nient’altro. Sto parlando di noi Springsteeniani, una tipologia di persone disperse nelle città, nelle campagne e tra le generazioni, ma numericamente forse la più consistente fra le sottocategorie degli appassionati di rock (a occhio l’unica paragonabile potrebbe essere quella dei Beatlesiani, mentre i Dylaniani o i Fan degli U2 sono sicuramente di meno). Ecco, per noi gli otto album da Greetings from Asbury Park a Tunnel of love sono oltre: ognuno ha le sue preferenze, ma nel loro insieme formano una parte importante del nostro DNA.

E’ consentito discutere all’infinito, invece, sugli album dagli anni ’90 ad oggi. Anche questi sono otto, se consideriamo solo quelli in studio con canzoni originali (quindi al netto di cofanetti, raccolte, live e Seeger sessions). Su questi tutte le opinioni sono accettabili, in una perfetta simmetria di apertura mentale che controbilancia l’intolleranza verso il dissenso sugli anni ’70 e ’80. Io credo di appartenere ad una tipologia abbastanza benevola verso ogni cosa springsteeniana. Non rinuncerei a nulla di ciò che ha pubblicato, anche se non può esserci paragone tra le due fasi della carriera. Ma di questi otto, i tre che non mi dovete toccare sono Lucky town, The rising e questo Wrecking ball.

Tra le tante qualità per cui si può coltivare il culto della personalità di Bruce Springsteen, una delle più oggettive e non attribuibile ai deliri da fan è la cura ossessiva nella costruzione dei propri album. Forse non c’è nessuno che abbia avuto la stessa ambizione di raccontare storie individuali intrecciate nella Grande Storia Americana; sicuramente nessuno l’ha fatto bene come lui. Negli ultimi anni sembra avere un po’ attenuato quell’ansia di perfezionismo che allungava a dismisura l’attesa di una nuova uscita. E se forse sarebbe stato meglio che Magic e Working on a dream fossero un unico album con il meglio da entrambi, nel caso di Wrecking ball la visione è stata, se non perfetta, certamente orientata a lasciare un segno forte, probabilmente storico.

I dischi di Springsteen sono sempre stati collegati all’evoluzione dei suoi live ed in questi ultimi anni è successo qualcosa di strano, importante e bellissimo. Mentre Bruce finalmente ha imparato ad accettare come qualcosa di naturale il desiderio dei suoi fans di poter riascoltare anche le canzoni più dimenticate, organizzando i suoi tour e le singole scalette in modo da dare spazio a decine e decine e decine di pezzi, con la morte di Danny Federici e, soprattutto, con quella di Clarence Clemons si è aggiunta una consapevole coscienza del tempo trascorso e di quello che avanza, ed ogni sera è una celebrazione della vita che non ha eguali. Non so se i tour di questo Springsteen ultrasessantenne siano i più belli della sua carriera, ma un modo di invecchiare così pieno di energia, di rabbia e di amore, nel rock non c’era ancora stato. Si va a vedere Springsteen convinti di celebrare il passato e si esce inondati di voglia di presente e di futuro, di percezione che anche questi sono i nostri anni importanti.

La forza delle canzoni di Wrecking ball ha avuto piena conferma proprio nei concerti. Non stiamo parlando della Forza di Badlands, Born to run o Born in the USA: nelle 3 ore e mezza di un concerto di Springsteen ci sono i (tanti) picchi in cui uno stadio può diventare uno dei posti più importanti della tua vita anche se hai smesso di seguire il calcio, e l’importante è che le altre canzoni non siano degli anti-climax che fanno disperdere energia. Iniziare con We take care of our own e Wrecking ball significa credere moltissimo in queste canzoni e nel loro messaggio. La prima, anche dopo un anno che la conosciamo, ha una qualità inafferrabile, non picchia particolarmente duro, non ha ganci memorabili, eppure si impone con una strana forma di autorevolezza, in gran parte grazie a quel titolo così perfetto nella sua ambivalenza. Ci prendiamo cura di noi, e non c’è un unico modo giusto di intenderlo, vale come orgoglio di farcela da soli, come consapevolezza del proprio egoismo, come impotenza dell’essere stati lasciati soli… In modo più discreto, è lo stesso trucco perfetto azzeccato ai tempi di Born in the Usa, e come allora poche immagini asciutte e dirette scavano una traccia. Questa canzone resterà.

E che un’altra canzone destinata a restare fosse Wrecking ball lo pensai la prima volta che la sentii come bonus track “americana” del DVD ad Hyde Park. Con quel vago senso di frustrazione per l’ennesimo gioiellino disperso fuori dalla discografia base, e quindi con eguale sorpresa nel ritrovarsela non solo riabilitata, ma addirittura con il ruolo di title track. Una scelta che, insieme a quelle di recuperare Land of hope and dreams ed American land, conferma il collegamento tra questo disco ed i live degli ultimi anni. Certo, c’è l’ultimo assolo di Clarence Clemons, ma c’è dentro soprattutto il mito della E Street Band ritrovata dal ’99 in poi, proprio a partire da quella canzone con cui ritornava, per la prima volta dai tempi di Born in the Usa, il suono classico modellato da metà anni ’70 a metà anni ’80, fino ad arrivare alla sarabanda irish nata con le Seeger sessions, con cui si celebrava l’intera storia della musica americana e la più grande delle band americane:

You’ve just seen
the heart-stopping, pants-dropping,
house-rocking, earth-quaking,
booty-shaking, Viagra-taking,
love-making, legendary
E!
STREET!
BAND!

In questo disco finalmente la E Street Band ha integrato alla perfezione le esperienze di Springsteen degli ultimi 20 anni; la cosa più impressionante e convincente fin dal primo ascolto di Wrecking ball è probabilmente la sequenza iniziale, che da We take care of our own si sposta da un suono classico-moderno e radio friendly, simile a Magic e Working on a dream, ad un clima familiare ma in realtà inedito. Easy money, Shackle and drawn, Jack of all trades e Death to my hometown sono canzoni che si rifanno ai canoni più antichi della musica americana, il folk, il country, il gospel, l’irish folk, e suonano contemporanee e senza tempo, importanti su disco e carismatiche dal vivo. Quasi tutti hanno indicato in Jack of all trades la canzone più forte del disco, ma a me è piaciuto di più l’impatto d’insieme ed il modo di passare da un brano all’altro, in particolare dal finale solenne di Jack of all trades al battito esplosivo della marcia di Death to my hometown. Se mi avessero fatto ascoltare una canzone così in quei tardi anni ’80, quando Springsteen decise di nascondersi e di mancarci tremendamente, e la nostre band del momento diventarono i Waterboys, i Pogues e gli Hothouse Flowers, mi avrebbe fatto letteralmente perdere la ragione. Oggi posso reggerla senza problemi e goderla come una grande idea che dà forza e calore a questo disco importante.

Nell’arte degli album di Springsteen, lo ribadisco, la sequenza dei brani ha un ruolo fondamentale, ed è bellissimo accorgersi di come avviene il passaggio da un’emozione a quelle seguenti. Pochissimi hanno parlato di This depression, ed in effetti non è una canzone da portare negli stadi, ma in mezzo a Wrecking ball, proprio in quel punto lì, si impone con un’intensità profonda, unica, con un suono atipico e straniante, in particolare quell’assolo di chitarra che a me pare, per un musicista tradizionalista come Bruce, uno dei suoi momenti più originali ed innovativi. E’ vero, sarebbe bello vederlo alle prese con uno di quei produttori “forti” che danno respiro alle canzoni, Joe Henry o T-Bone Burnett o Rick Rubin… Qui con Ron Aniello non fa molta differenza rispetto a Brendan O’Brien. Secondo me, se Bruce mai si deciderà, sarà nella fase finale della carriera, dopo i 70 anni, tipo Johnny Cash…

E per schierarmi definitivamente, dirò che la mia canzone preferita di questo disco è quella che ha diviso di più. Rocky ground non è piaciuta ai fan più conservatori, quelli che non amano molto il Bruce troppo black ed ancora meno l’idea che si sia sporcato le mani con un innesto rap; e non ha convinto chi frequenta abitualmente hip-hop e nu-soul, e che giudica troppo maldestro il suo modo di rapportarsi con culture musicali distanti. Eppure, se si riesce ad ascoltarla senza pregiudizi di alcun tipo, questa è una canzone semplice e potentissima, costruita su pochi elementi combinati con quel gusto cinematografico che il Boss ha sempre avuto, anche se utilizzando linguaggi diversi. Quel predicatore campionato sotto quelle voci soul, quelle parole cantate con la stessa consapevolezza di My city of ruins e dei momenti più intensi degli ultimi anni, quei pochi strumenti essenziali, quella sezione fiati così solenne e struggente, quei 30 secondi rappati con asciutta naturalezza, quel coro gospel pieno di purezza ed armonia. Nella lunghissima notte di magie di San Siro 2012, insieme a The promise da solo al pianoforte, è stato uno dei momenti che personalmente mi hanno più sorpreso e toccato nel profondo.

E’ la nostra storia con Bruce che va avanti, anche questa musica ha trovato il suo posto dentro di noi, e adesso c’è un San Siro 2013 da aspettare. Non è più una faccenda di dischi da ascoltare e da giudicare, non lo è mai stata. Quando durante Tenth Avenue freeze-out Bruce ha cantato When the change was made uptown and The Big Man joined the band, quando ha fermato la musica e nel silenzio improvviso si è girato verso il grande schermo con le immagini di Clarence Clemons giovane meno giovane già vecchio, quando col magone ci siamo uniti in un applauso di gratitudine ed affetto infiniti, io l’ho pensato forse molti altri l’hanno pensato, che una cosa così è a suo modo una cosa vera come la famiglia come l’amicizia, e come queste cose le capisci se ci sei dentro e le stai vivendo, per chi sta fuori sei solo un povero idiota che dà troppa importanza a scemenze senza valore… Tra pochi giorni andrò a votare ed ho una paura fottuta di qualsiasi cosa succederà, tra due settimane perfino la Chiesa cambierà e non si capisce verso quale direzione, ed io qui oggi posso dire, a 45 anni, di essere sicuro di poche cose come del 5° San Siro con Bruce, subito dopo la trasferta a Padova e appena prima di compierne 46…

45 45s at 45: ATLANTIC CITY – BRUCE SPRINGSTEEN, 1982 (5/45)

La scivolata sulle ginocchia fino ai piedi di Clarence Clemons, durante l’assolo di sax alla fine di Thunder Road: quella è la visione con cui ho incontrato Bruce Springsteen. Ancora a Mister Fantasy: nella Video Hit, Massarini faceva vedere 3 spezzoni dei video più richiesti. Una sera tirò fuori un sacco con lettere, manifesti, striscioni tutti per Bruce Springsteen e fece vedere TUTTA Thunder Road (dal film No Nukes, uscito in quegli anni).

Il salto a ginocchia unite sulla copertina del 45 di Dancing in the dark: quello è il primo disco di Springsteen comprato “in diretta”, poche settimane prima dell’uscita dell’album. Ascolti ripetuti e perplessi: non era lo Springsteen che volevo io! Poi Born in the USA imparammo ad amarlo, ma il cambiamento del suono della E Street Band fu uno dei momenti più controversi e importanti della musica degli anni ’80.

In mezzo ci fu Nebraska. Atlantic City fu il primo singolo di Springsteen ascoltato “in diretta”. Per i miei 15 anni ancora un po’ troppo difficile, ma così forte da entrare subito nei punti fermi del mio immaginario, con quell’America, metropolitana e di provincia, ripresa nel video, senza effetti speciali.

Everything dies, baby, that’s a fact,
but maybe everything that dies someday comes back.

Con uno che faceva un disco così, si capiva che avremmo fatto tanta strada, insieme.