Qualche giorno fa, all'”evento del secolo” dei 3 giorni con tutti i grandi sopravvissuti del rock, i Rolling Stones hanno suonato Come together dei Beatles. Nelle intenzioni un omaggio ed una celebrazione di quella grandezza condivisa nei favolosi 60s e nel corso dei decenni in cui il Rock è diventato Classic rock; nei fatti una performance stranamente deludente, che ho interrotto dopo meno di tre minuti su YouTube… Succede spesso quando avvengono queste fusioni a freddo di materie prime preziosissime: la chimica accende la scintilla, ma il fuoco non divampa. È una constatazione che si è amplificata ascoltando, negli stessi giorni, questi Kinks sulla soglia degli anni 80. Per certi versi, la perfezione del rock inglese più grande: come i Beatles ma più Rolling Stones, come gli Stones ma più Beatles, come gli Who ma più Beatles e Stones.
Anche se si fossero riformati, non sarebbero stati comunque invitati alla celebrazione della Meglio Gioventù degli anni 60. Troppo staccati come popolarità, eppure i Kinks sono la quarta colonna di quella prima generazione del rock inglese, e in quella fase di passaggio tra 70 e 80 erano gli unici ad essere ancora rilevanti e a modo loro al passo coi tempi. Se c’è un disco che può rappresentare il perfetto punto di congiunzione fra quei due decenni è questo One for the road. A suo modo, una tappa importante di quel processo di maturazione che la musica rock ha vissuto e di cui oggi conosciamo la vecchiaia (o, per essere meno brutali, la classicità). I fratelli Davies sprigionavano un’energia perfettamente sintonizzata con quegli anni attraversati dal punk e dalla new wave, non solo nei pezzi universalmente considerati progenitori legittimi come You really got me o All day and all of the night, ma anche in quelli meno prevedibili. E quando l’ispirazione non veniva dal punk, spingevano su un hard rock che dei tanti suoni oggi considerati classici sembra quello più immune dai corsi e ricorsi storici. Erano tempi in cui a meno di 40 anni eri considerato vecchissimo, eppure le loro canzoni raccontavano il ventesimo secolo e quella società irreversibilmente cambiata con una classe diverse spanne sopra il livello dei ventenni sulla cresta dell’onda. Confronti generazionali che oggi si sono estremizzati, al punto che possiamo dire che non esistono quasi più punti di contatto. La generazione del rock di fatto ne comprende 3 o 4, si estende su almeno quattro decenni e tutta insieme rappresenta il “prima” di un “dopo” che del rock farà probabilmente, tranquillamente a meno.
Per questo, riascoltate oggi, tra la David Watts dei Jam e quella dei Kinks (eseguita a fine concerto come pezzone di chiusura, proprio a seguito dell’exploit di quella che nel 1980 era la band inglese del momento) non c’è praticamente nessuna differenza. Ma anche se ci provarono ancora per qualche anno a restare nel gruppo di testa del nuovo rock (il video di Come dancing a Mister Fantasy…), i Kinks non erano destinati a questa vecchiaia dorata, in cui gli Stones fanno pace coi Beatles e Paul McCartney fa A day in the life con Neil Young… I dischi solisti di Ray Davies sono tra i migliori esempi di rock over sixty, ma non sono più i Kinks, non interessano a nessuno. Ed è per questo che fa effetto, riascoltare One for the road: perché fa pensare che un altro modo di invecchiare, forse, ci poteva essere. Con un milione di cose da dire forte, con un repertorio da far vivere senza porsi limiti, sapendo anche fare a meno delle Waterloo sunset e delle Sunny afternoon quando ha più senso risuonare le Hardway o le Misfits… E con quella fulminea, spettacolare padronanza del Sacro Graal, il riff: non solo le decine targate Kinks, lanciati a 300 all’ora o subito stoppati per prendere in giro il pubblico, ma anche quelli degli altri, con quelle favolose microcitazioni di Jumping Jack flash, Born to be wild o Baba O’Riley, che celebravano la storia del rock già nel 1980. Una consapevolezza asciutta e autoironica che oggi sarebbe il caso di recuperare, per sfuggire alle megacelebrazioni da centinaia di dollari a biglietto…
La battuta più bella sul Più Grande Weekend della Storia del Rock l’ha fatta Little Steven. Ad un fan che chiedeva perché, in mezzo a quella line up stellare, non ci fossero anche Bruce Springsteen and The E Street Band, ha risposto:
We’re too young to qualify.
Fa ridere, perchè la differenza d’età sarebbe minima. Ma quel criterio di selezione (solo chi c’era già negli anni 60) è effettivamente sostanziale, più forte della differenza d’età. Chi è arrivato dopo, in genere ha avuto rilevanza anche dagli anni 80 in poi ed ha una fanbase molto più trasversale. E’ vero che anche per Springsteen da qualche anno è arrivata l’era dell’autocelebrazione, ma la cosa che impressiona ai suoi concerti è la presenza di parecchi giovani e la rappresentanza molto omogenea di tutte le età comprese tra i 20 e i 70 anni. E’ uno dei motivi per cui i concerti di Springsteen continuano ad essere ancora oggi la cosa migliore del rock: un eterno presente in cui poter credere ancora al sogno, o comunque in cui le sconfitte, le disillusioni e i sogni infranti sono condivisi e trasfigurati in una catarsi che ti fa rialzare la testa e credere nel futuro. Nei due concerti di San Siro dello scorso luglio abbiamo ascoltato quasi tutte quelle grandi canzoni del 1975, del 1978, del 1980, desiderate per anni come in quei bootleg che rimangono la cosa migliore del rock per sempre. La grandezza di Bruce e della E Street Band è quella di suonarle con l’intensità e la consapevolezza degli anni trascorsi, e di non farti mai rimpiangere di non esserci stato, ad un loro concerto tutti quegli anni fa. Soprattutto se guardi il palco sul lato destro e li vedi ancora come allora uno accanto all’altro e accanto a Bruce: Roy Bittan al piano, Gary W. Tallent al basso e Little Steven Van Zandt alla chitarra.
Ho comprato questo Born again savage più per affetto che per reale convinzione: sicuramente l’album più trascurato della sua altalenante carriera solista, anche se ne avevo letto sempre giudizi positivi. È una bomba. Sul serio: lontanissimo da qualsiasi cosa abbiate in mente della sua musica, con o senza Springsteen. Un disco concepito e suonato in formazione power trio, con Adam Clayton al basso (per cui è anche l’ultimo bel disco in cui abbia suonato un membro degli U2) e Jason Bonham alla batteria, cazzuto e tirato come pochi. Il disco della vita per lui, come scrive in modo efficacissimo in queste bellissime note di copertina.
Questo è il disco che avrei fatto nel 1969, se ne fossi stato capace.
Ci sono voluti 20 anni per scriverlo ed altri 10 per buttarlo fuori, ma il tempo cronologico è sopravvalutato, no?
È un tributo ai pionieri dell’hard rock che mi hanno tenuto vivo mentre diventavo grande. I Kinks, gli Who, gli Yardbirds e i tre gruppi che uscirono dagli Yardbirds – i Cream, il Jeff Beck Group e i Led Zeppelin.
È anche una dichiarazione di gratitudine per George Harrison, i Beatles, i Rolling Stones, e i Jefferson Airplane che per primi mi hanno avvicinato alle melodie orientali e alla filosofia ed hanno allargato per sempre la mia coscienza cross-culturale.
Devo anche ringraziare Bob Dylan da cui discendono tutti i testi di canzoni, ed Allen Ginsberg per essere un Buddhista tra le altre cose.
Questo è il quinto ed ultimo degli album politici che avevo programmato quando decisi di realizzare i miei dischi. Volevo saperne di più di tutto quello che succede e scrivere di questo, parlare di questo, sperando nel frattempo di imparare qualcosa su me stesso. Dopo 5 album e 7 anni di viaggiare e studiare e guardarsi attorno ho scritto queste note per l’edizione originale di questo disco.
Viviamo in un folle manicomio. Un pozzo nero di barbarie senza pietà. Ed in questo purgatorio pieno di disagio e bruttezze e violenza e odio e ingiustizia e avidità e menzogne e dolore e frustrazione e confusione ci sono brevi, fugaci momenti di pace e amore e verità e bellezza. Sono rari. Sono a distanza di anni e di chilometri. Ma sono così significativi che rendono la vita degna di essere vissuta. Questi momenti ti danno la forza per affrontare la follia col tuo equilibrio intatto e con lo sguardo fermo e così resisti e sopporti e sopravvivi.
E se sei fortunato, davvero fortunato, riesci a toccare con mano quella forza e restarci attaccato abbastanza a lungo da provare, nel tuo piccolo, a rendere tutto un pochino migliore. Solo un poco più civile e giusto. A servire. E non lo fai per nessun altro perchè nessuno ti ringrazierà o ti ricompenserà o se ne accorgerà. Non prenderti in giro. Lo fai per te stesso. Per la tua anima.
Perchè in questo mondo è l’unica salvezza che potrai mai raggiungere.
E c’è davvero poco da aggiungere. Musica senza tempo, pubblicata nel 1999 come se fossero 30 anni prima o 30 anni dopo. Tutta una vita da mediano della chitarra elettrica che esplode in una suite di inni alla sacra forza del rock’n’roll, come un Lenny Kravitz senza pose da modello, col volume al massimo. Con tutti i difetti del caso: troppo lungo, troppo autoindulgente, completamente privo di buon gusto e di autocontrollo. Però gli vuoi bene anche per questo. Perché come 60, come 30 anni fa, niente e nessuno può battere la semplice, pura, perfetta botta del riff. Poi c’è la poesia, il Nobel a Dylan, l’autobiografia del Boss… Finalmente potremo sentirci rispettabili cinquantenni, con le nostre rispettabili file e pile di conventional records. Ma: it’s the journey, not the destination. Siamo selvaggi che rinascono ogni volta, non dimentichiamolo.