Loud.
Molto, molto più loud che quiet.
Era una mezza cazzata, la storia che il principale merito dei Pixies sarebbe aver influenzato i Nirvana nella definizione del loro sound punk ebbro di melodie pop, con il trucchetto dell’alternanza di dinamiche quiet-loud… Certo che è andata così; ma è una semplificazione nata così male da essersi trasformata nel luogo comune che il suono dei Pixies è quello di pop songs solo un po’ rumorose. Forse Here comes your man, che comunque è bella nervosetta, per essere una pop song… Ma prova a definire una cosa come Debaser. No, dico: provate ad inventarla DA ZERO, ad immaginarla e a realizzarla, una cosa come Debaser. Chi ci riuscisse, oggi, ci regalerebbe un’altro decennio d’oro come gli anni ’90.
Eccoci dritti nel cuore di questa faccenda dei 25 25 after 89. Certo, siamo partiti da The future di Leonard Cohen, abbiamo celebrato New York di Lou Reed, stiamo riscoprendo vecchi amori, qualche beautiful loser ed abbiamo perfino riascoltato i Simple Minds… Ma il vero big bang delle nostre vite è arrivato così, 4 secondi dopo quelle 4 note di basso, un riff che ci spinge dietro il culo e ci solleva dal suolo, uno che urla come un pazzo ed è irresistibile come una sirena, noi che restiamo in volo sopra quel riff finchè dura. E dopo Debaser, un altro calcio nel sedere, farfalle nello stomaco e rumore bellissimo, e poi ancora su, sopra un’altra onda (di mutilazione), e un’altra e un’altra ancora da non poterti dire che tu pallido e dolce tu eri già tutto quanto tu ed io non ci credevo io e ti tenevo stretto io… Doolittle ci ha letteralmente scaraventati negli anni ’90, ci ha mappato il DNA e ci ha lasciati lì in mezzo, nell’unico decennio che potremo dire di esserci goduti veramente.
I Pixies hanno fatto diventare il loud uno degli elementi essenziali del rock. Hanno tolto al rumore, all’urlo, allo schianto la connotazione di sperimentazione chiusa ed elitaria ed hanno fatto diventare l’indie rock bigger than life, grande come il rock tutto intero. Per la prima volta riascoltare un album di 25 anni fa non mi ha fatto provare la sensazione che stavo facendo un luuungo salto indietro. Doolittle sembra veramente pochi anni fa. Sembra di non aver ascoltato altro che i Pixies e il rock americano che ne è derivato, per tutto questo tempo. E invece possiamo non averlo più riascoltato da tantissimo, ma ogni volta che ci arriva addosso Debaser potresti andare in repeat ad oltranza. Sembra sempre quello che ci voleva per dare una scossa alla giornata, o alla vita tutta intera.
Doolittle fa godere tantissimo anche oggi. E’ uno di quei pochissimi dischi preziosi che erano così avanti quando sono usciti, che continuano a sembrare provenire dal futuro. Si può lasciar scorrere senza pensarci e venire inondati di piacere. Oppure ci si può pensare su, ed è allora che ci si ritrova smarriti e confusi. Perchè questi 25 anni sono passati veramente; e ci sono cose che dovevano accadere e non sono arrivate mai, ma non possiamo smettere di aspettarle, e di cercarle. Nelle nostre vite abbiamo sostituito l’indie rock con l’Americana, però quando questa loud music arriva si prende tutto lo spazio, è un richiamo che riporta nel presente frammenti di melodie e di pensieri ancora vivi dentro di noi. C’è molto rumore nei pensieri; si può passare tutta la vita a cercare di sfuggirgli, ma il rumore c’è sempre, anche quando non sembra.
La grandezza e l’attualità di Doolittle sono tali, da avere anche una colpa gravissima. Non ha portato nel rock solo la difficile arte del rumore, ma anche l’uso casuale e sconsiderato di un immaginario pseudo surrealistico, che all’inizio faceva parte del fascino e della novità, ma che presto si è rivelato stucchevole e che secondo me è una delle principali cause della lunga crisi di significato del rock del 21° secolo. Frank Black (o Black Francis, come si chiamava allora; anche questa delle identità variabili è un’altra bella minchiata che si è diffusa in quegli anni…), nel suo incredibile talento, era convinto che come forma d’arte il rock non avesse molta importanza, e che non valesse la pena sforzarsi di dargli un significato. Inventare pezzi eccitanti per un pubblico di ragazzi che dopo qualche anno si sarebbe lasciata alle spalle tutta quella robaccia: era così che i Pixies vedevano il loro ruolo. Ed immagino sia con lo stesso sterile cinismo che da una decina d’anni portano in giro l’autocelebrazione della loro reunion (finendo per commettere l’errore di aggiungere alla loro immacolata discografia un quinto inutile album, che mi guardo bene non solo dal comprare, ma perfino ascoltare…). Anch’io andai in pellegrinaggio ad Imola, nel 2004, e fu una bella esibizione asciutta e senza fronzoli: sarebbe stato meglio la chiudessero lì. Ma ora i Pixies si possono continuare a vendere agli ex ragazzi che non vogliono lasciarsi alle spalle la robaccia, MA ANCHE a quelli arrivati dopo che riescono a capire, nel megacasino del 21° secolo, quali sono Le Solide Basi Di Una Sana E Consapevole Cultura Rock… Perché uno stronzo come il vecchio Frank non dovrebbe approfittarne?
Insomma, se Debaser è uno dei Pezzi Della Vita non è certo per il suo senso profondo, o per l’espressività dell’angoscia esistenziale contenuta nell’urlo I am un chien Andalusia… E il grande equivoco che si perpetua ancora oggi è che sia molto figo suonare senza dire niente, mettere insieme le parole perchè hanno un bel suono, sprecare quella straordinaria forma d’arte (povera?) che sono i dischi e le canzoni per non raccontare nulla, di sè o del mondo. Quintali di dischi carini, a volte con scintille di genialità, ma completamente inutili. Perchè l’alchimia da cui sono nati i Pixies non si può riprodurre copiando gli ingredienti; e quel momento storico è durato anche parecchio, ma ha fatto dimenticare che la strada per diventare come i Wilco o come gli Arcade Fire è lunga e difficile, sempre più difficile. Così difficile da far sembrare più semplice essere grassi, pelati, alzare il volume, trovare il riffone più figo dell’universo e mandare in orbita questa generazione e la prossima…