25 25 after 89: BIG DADDY – JOHN MELLENCAMP (13/25)

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Tra i piccoli sogni di rock’n’roll che sono riuscito a realizzare in questi ultimi anni, c’è quello di aver visto dal vivo John Mellencamp. Solo che ci sono voluti due concerti e mi è rimasta la sensazione che ce ne vorrebbe un terzo.
Il primo è quello di tre anni fa al castello di Vigevano. Gran bella location, ma non era il tipo di posto dove mi ero immaginato che avrei visto un live di Mellencamp. Anche il lungo film sulla creazione del suo ultimo album, inflitto al pubblico in piedi come parte iniziale dello show, non aiutò certo a creare una bella atmosfera. Poi per l’ora e mezza che stette sul palco fu un bel concerto, tra piccoli e grandi classici e belle canzoni più recenti, con un’ottima band ed una personalità da grandissimo. Nel finale l’atmosfera si scaldò al punto giusto, con una R.O.C.K. in the Usa veramente da sogno. Il problema è che era proprio finito lì: saluti frettolosi, minuti di inutili applausi, luci accese e tutti a casa.

Ero da solo e così ritornai abbastanza velocemente nella via del centro di Vigevano dove avevo lasciato l’auto, con quello stato d’animo tra l’esaltazione e l’inappagamento che ti lasciano i concerti troppo corti. Misi in moto e tirai giù i finestrini per far entrare un po’ d’aria (era una calda notte di luglio) e la radio si accese sulla stazione che era rimasta sintonizzata quando avevo tolto il CD di Trouble no more. Sentii un jingle di Virgin Radio e poi, come un flashback di 25 minuti e di 25 anni prima, R.O.C.K. in the Usa. Proprio quella notte, poco dopo mezzanotte. Su Virgin Radio.
Non saprò mai se fu una serendipity da Ai confini della realtà o un banale contatto tra qualcuno appena uscito come me e un amico dj nella sedicente rock station. Quello che non dimenticherò è quella sensazione di 3 minuti in cui non c’era nessuna distanza tra il mio io 19enne che rimetteva un’altra volta la puntina su Scarecrow ed il 44enne con la radio a palla che usciva da Vigevano sulla Conventional Multipla per tornare dalla sua Conventional Family…

John Mellencamp era venuto per la prima volta in Italia e fu chiaro a tutti perché un artista così grande non abbia mai fatto il salto per passare di categoria e tentare la scalata a Bruce Springsteen: il desiderio di stare col tuo pubblico (che ti aspettava da 30 anni), di dargli ancora un po’ delle tue canzoni, di suonare quello che hai messo nei tuoi dischi invece di mostrargli un documentario… Ma in questa parziale insoddisfazione della mia Mellencamp experience, non mi mancava tanto quell’altra ora e mezza di concerto che uno con quel talento e quel repertorio avrebbe il dovere di offrire. E nemmeno quel minimo sindacale di interazione col pubblico che chiunque con un microfono davanti è normale che abbia. Quello che mi mancava di più era Kenny Aronoff. Per me, il più grande batterista, il migliore di tutti.

Kenny ha suonato con John Mellencamp da American Fool (1982) a Mr. Happy go lucky (1996). Dopo, oltre a collaborare con decine di musicisti, è diventato il fedele batterista dei live di John Fogerty. Ed è così che quando quest’estate il leader dei Creedence Clearwater Revival è ritornato dalle nostre parti, ho deciso di non mancare all’appuntamento. Non solo per la mole di canzoni enormi di cui è autore. Non solo perché i suoi 70 anni sono ormai vicini. Più o meno alla pari con queste ragioni, c’era Kenny Aronoff alla batteria.

[Va tutto bene, siamo tutti amici, siamo sotto un palco a vedere John Fogerty che a quasi 70 anni suona un hit dietro l’altro con la forza di un ventenne, dopo un’ora e mezza fa Have you Ever seen the rain e cominciano a scendere i goccioloni, ma fa niente, mancano ancora Bad moon rising, Fortunate son, Proud Mary e un’altra mezza dozzina di bombe, piove fortissimo ma è bellissimo… Un momento, voi lì davanti cosa state facendo? Avete aperto l’ombrello??
L’OMBRELLO???
L’OMBRELLO???????
Avete portato L’OMBRELLO a un concerto rock??!??
Ma non c’eravate a San Siro nel 2003??
Levate quei cazzo di OMBRELLI che non vedo più Kenny Aronoff, il Signore della Batteria!!!
E andatevene a vedere Rihanna, che Rockin’ all over the World non ve la meritate…]

Pur essendo 6 anni più vecchio di Mellencamp, Fogerty ha inondato di entusiasmo e di hit immortali il pubblico dell’Ippodromo di San Siro e l’acquazzone implacabile di quella notte di luglio ha trasfigurato nell’epico la felicità di essere lì con quell’old man a celebrare la forza del rock’n’roll. Con la chitarra di John Fogerty e con la batteria di Kenny Aronoff. Ed è grazie a questo secondo concerto che lo posso dire un po’ più convinto, di aver visto John Mellencamp…

Faccio ripartire nelle cuffie un’altra volta l’intro di Martha say. Grande canzone, che con l’accensione di quei primi 3 secondi ti scoppia nel cranio e con il tiro ritmico durante tutto il pezzo ossigena la circolazione del sangue e crea dipendenza. Big Daddy non è l’album migliore di John Mellencamp, ma fa ancora parte di quel decennio senza macchia, in cui con la hit Jack and Diane entrò nella serie A del rock e venne toccato dalla Grazia per lunghi anni con capolavori come Scarecrow e The lonesome jubilee. Con il senno di poi, Big Daddy iniziava una parabola discendente che lo ha portato nelle seconde linee: ancora molti dischi belli e bellissimi, qualche mezzo passo falso, ed oggi un’aurea terza età (come per Tom Petty poche settimane fa, anche il suo nuovo album in uscita proprio in questi giorni sembra sia un altro centro pieno).
C’è sempre stato molto folk nel rock di John Mellencamp, ma l’assenza del drumming unico di Kenny Aronoff ha modificato l’essenza della sua musica. Un songrwriter di grande maturità, sempre e comunque meritevole di fedele attenzione, ma senza più quel marchio di fabbrica che rendeva tutto così speciale. Un po’ come Morrissey senza Marr, Mike Scott senza Steve Wickham, Jackson Browne senza David Lindley, Mick Jagger senza Keith Richards… Diciamola grossa: un po’ come Springsteen senza E Street Band.

Quando un artista perde il suo suono può essere più libero e trovare nuovi suoni, portare gli ascoltatori verso orizzonti inesplorati, ci mancherebbe… Ma è proprio ascoltando un album a torto giudicato minore che si riscopre la bellezza che ci aveva conquistato così tanti anni fa. E si comprende che non è per niente scontata, come invece un po’ mi sembrava, in quella fine di anni ’80 in cui cominciavo a lasciarmi alle spalle l’heartland rock di questa generazione americana irripetibile e stava per iniziare la stagione della mia generazione.

Moments of time they shared together.
Moments of time between two friends.
Standing on street corners with shirts unbuttoned.
There was a moment in time they swore they were friends to the end.

Non lo so se John e Kenny fossero grandi amici; è possibile che sia molto più forte la sintonia umana, oggi, con il vecchio Fogerty. Eppure a me sembra evidente che, pur suonando sempre in modo spettacolare, la batteria di Aronoff con Fogerty non fa la differenza come con Mellencamp. E non credo sia solo perchè, in fondo, nemmeno Springsteen fa la differenza con canzoni come Who’ll stop the rain… Credo invece che sia la chimica umana, la misteriosa linea che unisce due musicisti e fa creare qualcosa di unico, che da soli non ci sarebbe stato. Forse c’è ancora tempo, forse lo riuscirò a vedere quel terzo concerto, in cui vedrò la testa pelata e le braccia possenti di Kenny Aronoff dietro il Piccolo Bastardo. Nel mio sogno è un concerto lunghissimo, con tutti i miei pezzi preferiti (almeno 4 o 5 da Big Daddy), ed inizia con Let it all hang out, la bonus track alla fine del CD. Una rullata e tutti cominciano a ballare, fa caldo, le ragazze hanno la mia età ma sono belle come 25 anni fa, dopo un po’ inizia a piovere forte ma non si apre nemmeno un ombrello…

45 45s at 45: SMALL TOWN – JOHN MELLENCAMP, 1985 (13/45)

L’orgoglio di essere nati in provincia. L’amore per la propria piccola città. Segno di saggezza o sentimentalismo ridicolo? Dipende da chi maneggia la materia. E comunque, sempre meglio del cliché opposto: fa tutto schifo, andiamo via e non voltiamoci indietro.

Small town mi arrivò a 18 anni dritta in faccia, col suo messaggio chiaro e forte.

I was born in a small town

And I can breathe in a small town

Gonna die in this small town

And that’s prob’ly where they’ll bury me

Non so se c’è una canzone più Americana di questa. Adoro il modo in cui inizia: giù chitarra e rullante perfettamente allineati, parte il giro di accordi più elementare, entra la voce del “Coguaro” e in cinque secondi ci sei dentro e vorresti non finisse mai. La band di Mellencamp in quegli anni era l’essenza del rock’n’roll: la E Street Band è a un altro livello, ma le canzoni di Scarecrow suonavano come la perfetta formula magica dell’American music: John Fogerty + Tom Petty x Rolling Stones : Bob Dylan…

Ho dischi di tutti i tipi, sono passato attraverso il grunge e il rap, mi sono innamorato della jungle e del trip-hop, ho seguito l’indie rock inglese e americano dagli anni ’80 ad oggi, e non mi pento di nulla. Ma le mie radici sono queste, a queste radici sono tornato sempre. Orgogliosamente (e letteralmente): oh Lord, I’m stuck in Lodi again