TOP 5 2013

Per me è stato un anno da ricordare più per i concerti che per i dischi (il mio anno migliore in assoluto?).
31 Maggio – Bruce Springsteen, Padova, Stadio Euganeo – Tutto Born to run.
3 Giugno – Bruce Springsteen, Milano, Stadio Meazza – 5° San Siro su 5 since 1985, tutto Born in the U.S.A., tutto lo stadio che si abbassa e poi esplode con Shout.
2 Luglio – Johnny Marr, Bologna, Bolognetti Rocks – Scoperto in pausa pranzo, Conventional Wife benedice la follia Milano-Bologna: NON fermatemi se pensate di averlo già sentito prima.
3 Luglio – Black Crowes, Milano, Alcatraz – La mia prima volta dal vivo con la più grande rock’n’roll band dopo i Rolling Stones.
11 Luglio – Bruce Springsteen, Roma, Ippodromo Capannelle – Gaetano mi porta nel pit per un altro 11 Luglio perfetto, trentun anni dopo quello dell’82: New York City Serenade con la sezione d’archi, 12 minuti da mettere sopra davanti prima di tutta una vita di rock.
4 Novembre – Bob Dylan, Milano, Teatro degli Arcimboldi – Uno dei Dylan migliori in oltre 50 anni di vita di Dylan.
22 Novembre – Waterboys, Milano, Auditorium – Il ritorno dei ragazzi di Fisherman’s blues, bellissimi come 25 anni fa (e sto ancora aspettando il Fisherman’s box…).

Comunque, questi sono gli album del 2013 a cui ho voluto più bene.
In realtà è una Top 5 + 2, con l’aggiunta di Fantasma dei Baustelle (album italiano dell’anno) e soprattutto di mbv dei My Bloody Valentine (che sarebbe dentro tutte le Top 5 dal 1992 al 2012, e quindi anche in questa…).

5. TOOTH AND NAIL – BILLY BRAGG
tooth&nail
Billy è uno di quelli di cui ho comprato sempre tutto, e questa volta ha centrato l’album giusto per il momento che stiamo vivendo. Anni in cui si combatte con i denti e con le unghie, e dove abbiamo un gran bisogno di persone con la saggezza, l’esperienza e la passione per l’uomo che ha lui. Avrebbe anche il carisma e lo spessore per diventare un leader politico, ma è troppo artista per poter compromettere anche di poco l’integrità e l’onestà che da sempre comunica nelle sue canzoni. Trent’anni fa si inventò un modo unico di esprimersi con lirismo punk, poi ha assorbito un secolo di canzone tradizionale americana con al centro Woody Guthrie ed è oggi forse il più credibile esponente dell’inesauribile storia dei cantautori americani (paradossale, con quel suo inestirpabile accento londinese). Qui poi c’è Joe Henry come produttore, ed allora è veramente un punto di approdo definitivo.

Con questi suoni caldi, la solida struttura folk e country delle canzoni ed una varietà di melodie come non si ritrovava dai suoi anni migliori, la voce non bella di Billy si carica di colore e profondità, facendo un notevole salto di qualità. Una voce che si ascolta e riascolta come quella di un amico vero, con cui si fanno volentieri chiacchierate in cui si ritrova la calma interiore e si ascoltano parole che sanno toccare l’anima.

What happens when the markets drop?
If the numbers really don’t add up?
Everyone seeks a safe haven,
As they contemplate their ruin,
The self-proclaimed smartest people in the room
Are trying very hard not to sound craven.

But what if there’s nothing?
No pot of gold to find?
Only the blind leading the blind?

No one knows nothing anymore,
Nobody really knows the score.
Since nobody knows anything,
Let’s break it down and start again.

4. THE ARGUMENT – GRANT HART
Grant_Hart
L’anno scorso scrivevo che su una rinascita di Bob Mould ci avevamo tutti messo una pietra sopra, e ci siamo ritrovati una cosa enorme come Silver age. Quanto a Grant Hart, la pietra sopra l’avevamo messa già dalla seconda metà degli anni ’90: dopo un bel Nova Mob nel ’94, pochissimi album e rarissimi sprazzi della grandezza passata. A un certo punto, di lui era già qualcosa sapere che era ancora vivo ed in grado di fare musica.

Lo stupore che ci ha dato The argument è un’emozione bellissima di cui fare tesoro. Tutti i riflettori quest’anno sono stati puntati sul ritorno di David Bowie, com’è giusto che sia, mentre questa di Grant Hart è una rinascita artistica che raggiunge pochi intimi. Perchè solo chi ha incrociato una storia importante come quella degli Husker Du può sapere quanto certe canzoni ed i loro autori ti possano entrare dentro. Chi ci ha cambiato la vita si merita affetto e gratitudine, e quando viene nuovamente toccato dall’ispirazione, è come se fosse accaduto qualcosa di bello nella nostra di vita, non solo in quella di qualcun altro.

Una pazza idea da vecchi freak del prog, quella di creare un ciclo di canzoni ispirate a Paradise Lost di John Milton… Magari un giorno mi verrà anche voglia di approfondire bene, e di affrontare quel capolavoro della letteratura anglosassone… Per ora, per stare nella mia Top 5 del 2013 è stato sufficiente lasciarsi andare senza problemi a questo lungo flusso di canzoni, a tratti un po’ tortuoso e sgangherato, ma sempre illuminato dalla Grazia. Fin dal primo ascolto si entra dentro l’opera con il piede giusto grazie a Morningstar; poi la tensione non viene mai meno, in miracoloso equilibrio tra una ricchezza di scrittura degna dei più grandi e quel suono povero ma bello che ha sempre caratterizzato il Grant Hart solista fin da Intolerance. E non è solo perchè in mezzo a questi 20 brani ci sono almeno altri 4 o 5 capolavori veri; questo album vedrà crescere il suo status di classico soprattutto perchè butta fuori cose che il Nostro aveva dentro da una vita, risentimento sfogo rivincita rinnovamento che non possono arrivare piano piano o un disco per volta, ma solo tutte insieme, nel modo giusto e definitivo.

3. FANFARE – JONATHAN WILSON
Fanfare
Cinque cose che ho capito di Jonathan Wilson:

1) E’ uno che ci ha messo i suoi anni per crearsi la sua visione del mondo e della musica e che quando è arrivato il suo momento si è alzato e ha deciso che, se si incide un disco, deve essere un discone. Una roba in cui mettere tutto di sè e del proprio mondo, e che richiede a chi l’ascolta un’attenzione di ascolto proporzionale. Un discone come Fanfare ti sgama subito, se lo ascolti con l’approccio da una botta e via che la bulimia spotifaica ti ha inoculato, rocker del 21° secolo… Cominci a giustificarti, a dire che ci si perde, che ti va tutto insieme, che non si riesce a trovare il bandolo, che bisogna ruminarlo… A questi compagni che sbagliano vorrei chiedere: in quale punto esattamente ti viene voglia di toglierlo? No, perché per me è letteralmente impossibile…

2) E’ vero, ricorda troppo troppa roba: David Crosby, Pink Floyd, Grateful Dead, Neil Young, Jackson Browne, Steely Dan, Traffic, Joni Mitchell, ogni volta che lo ascolti ne salta fuori uno nuovo, sempre degli anni ’70. Però ogni volta diventa un po’ più evidente: queste sono grandi canzoni, fottutissime grandi canzoni come quelle degli anni ’70.

3) Un po’ come quando ascoltavamo i primi album di Lenny Kravitz e dicevamo: bello, ma non è la musica di oggi… Lenny era proprio come Jonathan, più Black e Pop ma implacabile nel ricrearti il flash della musica di quegli anni. Comunque non c’è problema: quando risento oggi Always in the run, Mr. Cab driver o It ain’t over ‘till it’s over, mi vengono in mente quegli anni lì, non il 1971. E quando riascolteremo Jonathan WIlson, sarà uno dei pochi artisti che avranno segnato questo tempo.

4) Fin dagli anni ’80 abbiamo accumulato tantissimi dischi che riproducono più o meno fedelmente i suoni dei grandi degli anni ’60 e ’70. Bellini, belli e bellissimi. Jonathan Wilson è il primo e l’unico che ha fatto diventare l’amore per quegli anni che non abbiamo vissuto così reale da riuscire a farlo diventare la sua vita, nel Laurel Canyon e nelle session con i grandi di quell’epoca. Un’identificazione così forte da generare con questi suoni vecchi nuove forme, familiari e mai viste, naturali mutazioni da un cowboy movie ad una dark side of the moon. Musica sognata prima e suonata per davvero.

5) Mi piace, Jonathan Wilson. Ma proprio tanto.

2. THE MESSENGER – JOHNNY MARR
Johnny-Marr-The-Messenger
Un altro a cui non avevamo nulla da chiedere, girati come siamo da 25 anni dalla parte di Morrissey, persi dietro i suoi lampi di genio e i suoi giri a vuoto, le adorazioni sotto il palco e i record di concerti saltati, la repulsione per l’ennesima dichiarazione delirante e l’esaltazione per un’Autobiography che è subito un Classico. Eppure Johnny è il mio uomo, quello che sta dentro tre dei miei 45 45s at 45.

Johnny.
Fuckin.
Marr.

Finalmente ha tirato fuori l’album che avevamo sempre sognato. Un’abbondanza inebriante di riff e ganci come in quei dischi là, lo straniamento di ascoltarli con una voce che non c’è, ma la chitarra, ci conosciamo vero? Se lo può permettere, dopo una carriera intera a fare di tutto per non ripetere nulla di quanto aveva già fatto con gli Smiths, non si è mai capito perchè: forse sarebbe stato troppo facile, o al contrario impossibile. Non so se ne ha altre di canzoni così, da tirare fuori con classe e naturalezza, o se le aveva messe da parte per 25 anni e adesso le ha finite per sempre. Però so un’altra cosa: che è giusto così, che bisogna scacciare via quel pensiero che abbiamo avuto tutti, come sarebbe bello sentire queste canzoni con quella voce… E invece no, la cosa grande è questo modo fantastico di arrivare a 50 anni e decidere che il meglio non è tutto alle spalle, che quello che siamo ora è il sale della terra, Generate! Generate! GENERATE!
Johnny Fuckin Marr, what a big, BIG inspiration…

And a big, BIG thank you to Conventional Wife. Quel modo istintivo che ha solo la persona che ti ama di dirti vai, fallo. E dopo una corsa fino al centro di Bologna, trovarsi a pochi metri, su un palco troppo piccolo per contenere una coolness così gigantesca e vera. NESSUNO potrà mai iniziare un concerto con qualcosa di meglio: Stop me if you think you’ve heard this one before, quel riff e quella chitarra a pochi metri. Overwhelming. E come stanno bene le canzoni nuove insieme a quelle là, come diventano anche di Johnny Marr quelle parole: And if a double decker bus… E come sono nostre, che momento perfetto quel singalong che non finisce mai, solo la chitarra di Johnny e le nostre voci. In una notte in cui ho avuto bisogno di sentirmi uno splendido quarantenne, mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando la musica degli Smiths per la prima volta.

1. MORE LIGHT – PRIMAL SCREAM
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Probabilmente sarò io che ho un problema di arrested development e mi sono fermato al 1999/2000. Ma sinceramente non riesco a capire come si possano avere dubbi: questo è il capolavoro assoluto del 2013, il disco più bello degli ultimi anni. Invece nelle playlist di fine anno è quasi assente (solo al 30° posto in quella di Mojo). Un’ennesima prova dell’estrema frammentazione dei gusti, della completa assenza di un centro gravitazionale che consenta di condividere oggi una visione generale della musica. Relatività.
Niente è reale/niente è irreale.

More light non è il salto oltre il sole oltre il futuro di Screamadelica e nemmeno la violenta accelerazione dentro il 21° secolo di XTRMNTR; ma in una discografia tra le più eccellenti ed eccitanti della storia del rock, si colloca saldamente al 3° posto (quindi prima e meglio di grandissimi dischi come Give out but don’t give up o Vanishing point). Forse gli mancano un paio di singoloni un po’ più “epocali” (eeeh, ma quelli li fanno i Daft Punk… No, grazie) per farlo piacere anche ai più distratti (e meno fan…). D’altra parte un livello medio così alto in tutti i brani di un album, i Primal Scream non l’avevano mai raggiunto, e infatti è obbligatoria la Deluxe Edition, con un secondo CD che aggiunge 6 inediti di pochissimo inferiori al disco “vero”. E se non farà epoca grazie ai singoli, questo More light sarà riascoltato anche tra molti anni per come descrive efficacemente questo tempo e le fortissime tensioni che lo attraversano.

Già avere il coraggio di iniziare con una canzone che si chiama 2013 (Twenty Thirteen, cosa ci ricorda? Massì, questo è l’uno nove nove sei…) fa la differenza rispetto alla miriade di dischi belli (anche bellissimi) che potrebbero essere usciti, indistintamente, 10 anni prima o 10 anni dopo. Poi piazzano una cosa pazzesca come River of pain: capolavoro assoluto, no debate, che già basterebbe a stare nella Top 5 di chiunque. E come terza un’altro potentissimo affresco sulla nostra Storia presente, Culturecide:

View from the carriage
Safe behind glass
Wounded streets of graveyard flats
Dishrag curtains scream of disease
Satellite dish where the window should be
Breeze block prison
Somebody’s home
Looks like it’s been hit by a neutron bomb

Questo disco è il rock come vorrei che fosse, come speravo continuasse ad essere anche dopo i favolosi anni ’90, anche dopo i brividi esaltanti di Shoot speed/kill light che sembrava non sarebbero finiti mai… Invece alti e bassi, come noi, come tutto. Ecco, il rock mi serve ancora, e tanto, per restare acceso e continuare a camminare con la Bestia.
I don’t care about tomorrow when I feel like this today.
Non so se si può capire, non so se è il caso: ma la mia attitudine, oggi, è adeguatamente rappresentata da un individuo con un Nudie suit che si mette le dita sulla testa per fare le corna…

It’s alright, It’s  OK
You can do just what you want to
Take your time, walk away
You can come back if you’re supposed to

Ooh La La…

45 45s at 45: SLOW EMOTION REPLAY – THE THE, 1993 (28/45)

Dusk. Il crepuscolo. La notte che arriva e si stende sulle città. La notte che entra nelle anime.

Tra i dischi che raccontano la notte, questo album di The The ha un posto tutto suo. Un capolavoro che non ha avuto finora i riconoscimenti che avrebbe meritato; ma sono convinto che prima o poi, nei corsi e ricorsi storici, il suo momento arriverà.

In quel periodo partecipavo con Cipo ed altri all’acquisto dei dischi per Radio Lodi, presso un grossista di via Mecenate a Milano. Per prendere più dischi si sceglievano solo vinili (che costavano molto meno dei CD), ed un giorno portammo in radio anche il nuovo LP di The The, che negli anni precedenti aveva raggiunto in Italia una dignitosa notorietà. Iniziammo a trasmetterlo con Paolo Corsi a Psychocandy: il primo singolo era Dogs of lust, ma Slow emotion replay usciva dagli speaker in modo spettacolare e si impose per acclamazione nelle nostre playlist. Poi a settembre Paolo continuò con Massimo Boni (noto anche come L’Ingegner Boni) e con Demon Box, mentre io iniziai il programma al quale sono più legato: Taxi Driver. Partivo dopo di loro alle 22.30 e arrivavo fino a mezzanotte; sostanzialmente mi facevo dei veri e propri viaggi con la musica, alimentando tutte le suggestioni possibili con le atmosfere notturne e spaziando sia tra le cose fantastiche che uscivano a ritmo continuo in quegli anni d’oro, che tra i classici del passato più o meno recente.

In quelle notti della nostra radio di provincia, soprattutto tra il ’93 e il ’95, suonai le canzoni di Dusk decine di volte. Se dovessi scegliere, tra tantissimi capolavori, un album simbolo di Taxi Driver, sarebbe proprio Dusk. Love is stronger than death, True happiness this way lies, Helpline operator, Lonely planet, This is the night… E poi il punto di massima intensità, Bluer than midnight, con La Grande Domanda:

Why love can never touch my heart like fear does?

Da allora sono passati tanti anni; per questa Domanda e per molte altre abbiamo trovato delle risposte, qualcuna giusta, molte sbagliate… Mentre l’unica cosa che è rimasta sempre uguale è che everybody knows what’s going wrong with the world, but I don’t even know what’s going on in myself…

E con questa, sono 3 canzoni con dentro Johnny Marr: il musicista più presente in questi 45 45s. Giuro che non l’ho fatto apposta, ma sicuramente un motivo ci sarà…

45 45s at 45: GREETINGS TO THE NEW BRUNETTE – BILLY BRAGG, 1986 (17/45)

La prima volta a Londra fu l’anno precedente, Giugno 1985. Nell’Agosto dell’86 ci tornai per tre settimane con una vacanza-studio, ospite di una famiglia nella periferia nord. In quei primi viaggi mi innamorai di Londra e della Gran Bretagna, del paesaggio urbano e degli stili di vita innumerevoli e perfettamente integrati che incontravi in ogni momento. Potevo riconoscere le atmosfere di molte delle canzoni che amavo, e trovarmi ancora più in sintonia per capire la musica che arrivava da lì.

La prima volta a Londra comprai Life’s a riot with spy vs. spy, il primo disco di Billy Bragg. (One more time, grazie al Venerato.) Ecco, per amare Billy Bragg bisogna amare l’Inghilterra: canzoni sulla vita della gente comune, la voce e la pronuncia di una persona normale, una chitarra punk senza dietro una band. L’urgenza di esprimersi, prima di ogni altro parametro artistico. Più indipendente di tutte le indie band nelle classifiche indie delle etichette indie, così indipendente da girare il Paese solo con le sue canzoni e la sua chitarra.

Talking with the taxman about poetry è il suo capolavoro; i singoli furono prima Levi’s Stubbs tears e poi Greetings to the new brunette. Difficilissimo dire razionalmente quale dei due sia il più bello; ma questa è una lista del cuore, e per me non ci sono dubbi.

Here we are in our summer’s years,
Living on ice cream and chocolate kisses.
Would the leaves fall from the trees
If I was your old man and you were my missus?

Una delle mie canzoni d’amore preferite; e sull’estate; e sull’essere innamorati d’estate; e sull’essere a Londra d’estate pensando di essere innamorati; e sul rimpianto di quando si è stati innamorati d’estate (a Londra, o in qualsiasi altro posto).

Una delle mie canzoni preferite con la chitarra di Johnny Marr (sì, comprese quelle degli Smiths).