m b v – My Bloody Valentine | 1983 – Lucio Dalla | Woodstock – Original Soundtrack

mbv

1983

Woodstock

Il ritorno dei My Bloody Valentine dopo 22 anni ha rappresentato una prova veramente significativa di quanto si possa essere disposti a fare sul serio con l’etica estrema dei Conventional Records.

Esce all’improvviso l’album impossibile, quello desiderato per anni e anni, per sapere cosa potesse esserci dopo i suoni sovrumani di Loveless, quello dimenticato da tutti come scientificamente irrealizzabile. Esce dall’oggi al domani ed esiste solo dall’altra parte di uno schermo, o su un display. Sul sito dei My Bloody Valentine, su YouTube, presumo anche su iTunes e su Spotify, linkato su blog di tutto il mondo. Con la sua copertina blu elettrico fatta di pixel. Ma niente cartone, niente alluminio, il vinile chissà. Bene, bravi.

Allora fa niente, Kevin Shields. Ho aspettato 22 anni, aspetto ancora. Altri 2 mesi ho aspettato, e poi i pixel blu elettrici si sono materializzati dietro la vetrina del Libraccio, mentre cercavo invano, per l’ennesima volta, il nuovo di Johnny Marr. Sull’etichetta un prezzo micidiale: 24€. Nessun problema, eccoci alla cassa. Effettivamente ha aiutato molto il fatto che avessi da scaricare i 100 punti accumulati sulla card Alta Fedeltà, pari a 20€. Gran cosa, e un gran bel nome, la card Alta Fedeltà. A posto: con 4€ il 3° album dei My Bloody Valentine è entrato ufficialmente nella mia vita, tra Loveless e Nearly God. E poi, ovviamente, dentro l’iPod…

Ascoltato mesi dopo aver letto recensioni più o meno autorevoli, è tutto vero, hanno tutti ragione. Quelli entusiasti come ragazzini e quelli che si chiedono se ne avessimo veramente bisogno. Quelli che tutti gli altri al confronto spariscono e quelli che per esserci voluti 22 anni sembra raffazzonato e finito in fretta. Non ci può essere un modo neutro ed oggettivo di accostarsi a questo album, perchè troppo soggettivo è il rapporto che ognuno può aver sviluppato con le canzoni e con il suono dei My Bloody Valentine. Perchè dipende soprattutto da quando li si è scoperti e ascoltati, e da qual è il rapporto che si ha con la musica oggi.

L’unica cosa oggettiva è la strana sequenza data a queste nove nuove canzoni: le prime tre come se Loveless avesse avuto tre canzoni in più; le tre centrali, una eterea minimale tediosetta e le altre due leggero dream pop modernissimo senza tempo; le ultime tre con gli spunti più nuovi, nel ritmo di In another way, nel monolite multidimensionale di Nothing is e nell’invenzione a strati di chitarre voci e bpm di Wonder 2. Per il resto, come si decide di abitare in questa sequenza dipende da ciascuno di noi.

Io in questo album ci sto bene. Non lo cercavo, non lo aspettavo più, e il suono fuori dal mondo di Loveless faceva parte dei ricordi più belli degli anni ’90. Però adesso che mi ci sono ritrovato dentro, sembra quasi che, inconsciamente, ne avessi bisogno. Non penso che m b v, come opera, reggerà nel tempo il confronto con Isn’t anything e Loveless; ma qui e ora, nel 2013, compensa le sue imperfezioni e disomogeneità stilistiche con una potentissima evocazione del mondo di 20-25 anni fa. Anzi, di come stav(am)o nel mio (nostro) mondo di 20-25 anni fa.

Cercavamo nei dischi il senso del futuro, un oltre che superasse il senso di impotenza che ha avvelenato la giovinezza della nostra generazione, impedendoci di capire che era in quegli anni che il futuro si giocava con le scelte (e le non scelte) quotidiane. A ripensarci oggi, la stessa esistenza di band come i My Bloody Valentine e di tutta la irripetibile classe del ’91 era un segno di quanto quell’epoca che ci appariva opaca fosse in realtà, rispetto ai pantani di oggi, un momento storico di straordinario fermento. E’ anche per questo che m b v si impone con autorevolezza nei nostri ascolti di oggi, ormai così lontani da quella voglia di avventura, di sogni pericolosi, di equilibrio instabile tra caos insostenibile e irresistibile armonia. Dentro questi pezzi che non cercavamo possiamo ritrovare almeno il ricordo, nitido, di quel caos e di quell’armonia; e rimpiangere quella scomodità, quel sentirsi a disagio. Per poi riflettere e avere un dubbio: e se anche questi fossero tempi unici e irripetibili, con occasioni da non perdere di cui nemmeno ci accorgiamo? E intanto che decifriamo questo mistero, i suoni di m b v ci entrano dentro e aggiungono un pezzo alla nostra autobiografia.

Negli stessi giorni del riabbraccio con i My Bloody Valentine e con i miei 24 anni, un altro riacquisto su CD mi ha riportato ancora più indietro: 30 anni fa e “i 16 anni di Andrea”. Mi sono riconciliato post mortem con Lucio Dalla, riportandolo nel posto che gli compete, tra i miei musicisti italiani preferiti in assoluto; e dopo aver riscoperto le opere maggiori, a 6,90€ ho recuperato un album che consumai su vinile, ma che è stato dimenticato da tutti (escluso persino dalla ricca collana di belle ristampe uscita in edicola). 1983 era un LP molto strano, in cui Dalla sembrava voler ridimensionare lo status di cantautore superstar che aveva raggiunto, mantenendo comunque tutte le caratteristiche del suo modo di scrivere e arrangiare le canzoni. Erano solo sette, tra cui quella follia strumentale funky di Stronzo, e nessuna vera hit che tenesse testa a L’anno che verrà, o a Balla balla ballerino, o nemmeno a Telefonami tra 20 anni (dal Qdisc, altra bizzarria d’epoca, dell’81). Ma fatevi un regalo da 7€, e recuperatele.

Oltre ad apparire interessanti come tutte le belle canzoni minori non sciupate dai troppi ascolti, stupisce e dà inaspettati brividini il modo in cui suonano. Una brillantezza assoluta (ricordo che quell’anno, appena prima della diffusione dei CD, uscirono un paio di dischi – questo 1983 e The final cut dei Pink Floyd – in cui veniva sperimentata una tecnica di registrazione poi abbandonata, l’olofonia, che perseguiva una profondità e una percezione più naturale del suono), al servizio di una libertà espressiva, lirica e musicale, forse mai più ripetuta. C’è un pezzo come Pecorella, con intro e strofa difficilissime e un ritornello, all’opposto, elementare e irresistibile: un gioiello, 100% Dalla, praticamente impensabile farne una cover. C’è un altro capolavoro nascosto, Noi come voi, che all’epoca mi sembrava un po’ troppo prevedibile col suo imprinting del suono Dalla+Stadio, e che oggi si impone come un classico senza tempo, perfetta per questa bruttissima primavera.

…un mondo che a noi come a voi
piace sempre di meno,
un mondo che piove senza nuvole,
che piove anche quando è sereno.

C’è un pezzo di respiro cosmico come L’altra parte del mondo, che in realtà risulta meno ispirato rispetto ad altri affreschi pieni di personaggi tipici dello stile di Dalla come La sera dei miracoli, ma che mi è rimasto nel cuore per quella coincidenza così particolare con il mio nome e il mio status adolescenziale (Non ci sarebbe molto da dire dei 16 anni di Andrea…). In realtà il personaggio del testo c’entrava poco con me; ma migliaia e migliaia di dischi dopo non credo mi sia mai più successo (e sembra più impossibile che improbabile pensare di imbattersi in qualcuno che abbia qualcosa da dire sui 46 anni di Andrea…).

E c’è soprattutto 1983, con la sua struttura originalissima tenuta in equilibrio da una qualità di arrangiamento e produzione davvero impeccabili, una creatura verso la quale Dalla aveva un certo pudore artistico: ricordo che in un’intervista Lucio la descrisse come una composizione quasi dilettantesca nella sua istintività. Ed è proprio lì che sta il bello e lo strano di questa canzone (ed è forse anche il motivo per cui è così trascurata). A tutti piace la perfetta costruzione narrativa di 4 marzo 1943; mentre il quarantenne confuso degli anni ’80 che si confronta con gli anni della guerra coinvolge qualcosa di più intimo e personale, come sempre quando ognuno di noi fa i conti con il tempo che è passato.

Ecco, per me l’ascolto ravvicinato di m b v e di 1983 è stato come un potentissimo strumento di precisione per analizzare la distanza e il peso di tutti questi anni di storia personale e sociale. Lunghissimi i 40 anni dal ’43 all’83; rapidi e densissimi i 22 anni da Loveless a m b v; ma il vero punto di sospensione spazio-temporale sono stati gli anni tra l’83 e il ’91, che a me sembrano lunghi quasi quanto i 40 precedenti e almeno quanto i 22 successivi… E’ vero, sono stati gli anni della mia adolescenza e prima giovinezza, dopo i quali, lo sappiamo tutti, ogni anno è più corto dell’altro. Ma non è solo questo. La musica non mente mai. In quegli anni siamo passati dall’olofonia agli strati sovrumani di chitarre di Loveless; dai cantautori al “nuovo rock cantato in italiano”; dal techno-pop a Higher than the sun; da Radio Free Europe a Losing my religion; da Nebraska a Human touch; da Sunday bloody sunday ad Achtung! Baby; da Afrika Bambataa a Blue lines; dalla nascita degli Smiths alla nascita del Brit-Pop; dalla fine dei Clash all’esplosione dei Nirvana. E proprio te, quella notte in piazza sulle spalle di tuo padre sembravi un re… A ogni generazione il suo punto di partenza: in 1983 la Liberazione e la fine dei bombardamenti, per noi l’11 luglio ’82, una notte da Campioni del Mondo, vincere una volta tanto e vedere il futuro con occhi diversi. Tutto è possibile, anche la caduta del Muro. Per poi ritrovarsi a guardare i bombardamenti in televisione, le luci verdi nelle notti di Baghdad. In quegli anni, siamo passati da Pertini a Berlusconi…

Poi, sempre in quelle strane settimane, mi muore anche Richie Havens e fra gli acquisti recenti da Metropolis mi ero portato a casa il doppio CD di Woodstock a 10€. Il triplo LP giaceva indisturbato da decenni: per cui rendiamo onore a quella voce indimenticabile riascoltando Freedom, e tutti gli altri Eroi. Music from the Original Soundtrack and more. (Quel font è BELLISSIMO, forse il mio preferito in assoluto). Musica che è un documento storico a imperitura memoria: è successo veramente, è durato tre giorni ed è finito per sempre (in quella forma imprevista ed innocente). Musica classica, la nostra musica classica: Crosby Stills Nash & Young, The Who, Joe Cocker, Santana, Jefferson Airplane, Sly & The Family Stone, Jimi Hendrix. Musica che peschi nel mazzo, ancora oggi, cose che varrebbe la pena approfondire: Butterfield Blues Band? Mai presi in considerazione. Arlo Guthrie, John B.Sebastian? Ormai introvabili. La stessa Joan Baez: mai sopportata, eppure aveva il suo perchè… E il povero Richie, non sarebbe il caso di riscoprire, oltre a Freedom, qualche album di quella voce scura e aspra come una Guinness? Qualcuno si ricorda quella bella canzone dei primi anni ’80 col nostro Pino Daniele, Gay cavalier?

Ed ecco un altra verità sul tempo che è passato e sulla Storia che siamo noi. Quel 1969 è più lontano dei 44 anni trascorsi, Woodstock è molto più vicina alla Seconda Guerra Mondiale che alla seconda guerra del Golfo ancora in corso. Ma quella Musica fa ancora parte del presente, dobbiamo ancora finire di scoprirla, i ragazzi di oggi e di domani continueranno a cercarla e ad amarla. Quel tempo ci interessa e ci appassiona più della voglia di futuro, che ci hanno tolto, che ci siamo lasciati togliere. Gli anni ’70, il decennio più lungo, nel 1983 erano finiti. E a un certo punto, non si sa esattamente quando, ci siamo tornati dentro e non riusciamo più a venirne fuori. Contiamo i giorni che ci separano dai prossimi concerti di Springsteen. Celebriamo i 50 anni dei Rolling Stones. Paul McCartney sembra ancora un ragazzino. L’anno scorso non uno ma due album di Neil Young con i Crazy Horse. Tempest, il più bel disco di Dylan degli ultimi 15 anni. Banga, il più bel disco di Patti Smith degli ultimi 33 anni. E immancabile, preciso, ogni 2 anni, un nuovo album di inediti di Jimi Hendrix… Da quanti anni, insomma, non allunghiamo più lo sguardo sul futuro? Per questo ci fa stare bene sprofondare tra le spire iridescenti e i narvali translucenti dei My Bloody Valentine (this one goes out to Alessandro Calovolo, and the Rockerilla days that we left behind…). Da dentro quelle mareggiate di suono, tornare a percepire l’inquietudine del domani.

Not The Future. Only tomorrow

A song younger than yesterday

Lucio Dalla – Lucio Dalla

Comprare i dischi in edicola è una cosa tristissima, su questo non ci piove: normalmente il livello delle iniziative editoriali è molto scarso, come nel caso recente della collana Songwriters di Repubblica, che spreca un titolo bellissimo per un assemblaggio demenziale di soli 10 album che da anni costano 5 € e che qui vorrebbero vendere a 8,90… Ci sono state negli ultimi anni alcune pregevoli eccezioni, con pubblicazioni rispettose sia degli artisti interessati che degli acquirenti e con un ottimo rapporto qualità-prezzo che rende soddisfacente perfino un acquisto in edicola. E’ il caso di questa discografia (quasi completa) di Lucio Dalla, i cui album escono allo stesso prezzo dei negozi (9,90 €), ma in edizione rimasterizzata e con una ricca confezione digipack, completa di libretto con testi, credits, belle foto e un piccolo saggio con testimonianze di prima mano. Ed il confronto con le obsolete edizioni dei tardi anni ’80, con il loro sfigatissimo foglietto di quattro facciate, è veramente schiacciante. Per me è stata l’occasione di recuperare uno di quei capolavori che dici sempre prima o poi e passano i decenni e non lo prendi mai (Come è profondo il mare); e il Lucio Dalla del 1979, posseduto amato consumato in LP nei primi anni ’80. Da quanti anni non lo ascoltavo… Tutto intero, intendo, perchè i grandi classici qui contenuti hanno accompagnato i decenni e sono tornati in primo piano dopo l’improvvisa morte nel marzo scorso.

Con Lucio Dalla per me è stato esattamente l’opposto di quando è morto l’altro Lucio, 14 (quattordici?!?) anni fa. Battisti era per me una figura estranea, fuori sintonia rispetto alle caratteristiche dei cantautori che avevo scelto: troppo canzonettaro e costruito, la fabbrica di successi Mogol-Battisti sinonimo di musica per classifiche povera di significati veri. Quando morì, radio e TV strariparono di decine di canzoni e mi resi conto che le conoscevo tutte. Facevano parte del mio DNA musicale e lirico, senza che me ne fossi mai accorto; così, solo per essere nato e cresciuto in Italia. Per questo credo che sia vera quella cosa che qualcuno ha detto e scritto, un po’ sottovoce per paura di essere frainteso: che Battisti sta all’Italia come i Beatles alla Gran Bretagna e al mondo intero. E’ stato il genio creativo che ha portato la musica italiana dall’innocenza della canzonetta alla consapevolezza generazionale del rock. Una memoria collettiva “moderna”, un po’ in bianco e nero e un po’ a colori, pop nel senso pieno ed anglosassone del termine, appartenente a tutti: sostenitori, oppositori e neutrali. Me ne accorsi tardi, fuori tempo massimo, ma il piacere di riscoprirlo tutti questi anni dopo è stato comunque dolce ed esaltante.

Al contrario, Dalla è stato uno dei miei primissimi fari musicali in piena adolescenza, negli anni in cui scopri la musica ed inizi quel percorso che per alcuni di noi va avanti e non finisce mai… Le sue canzoni, alcuni suoi album, li porto dentro come i Beatles, Dylan, Springsteen e pochi altri. Quelli con cui inizi a modellarti l’anima su suoni e parole, che improvvisamente ti portano altissimo, profondissimo, lontanissimo. Poi, dalla seconda metà degli anni ’80, per me Dalla ha perso tutto; quello stato di grazia durato 5 o 6 anni si è spento e non si è riacceso più. Certo, gli ultimi 25 anni di Dalla hanno comunque parecchi estimatori; Caruso resta forse la sua canzone più nota. Ma proprio Caruso rappresenta il mio problema con questo Dalla: una canzone perfettamente concepita e costruita, un momento creativo di assoluta raffinatezza e accessibilità, ma che non mi ha mai emozionato. Ci ho provato molte volte, ma Caruso proprio non riesco ad amarla.

Dalla era da decenni fuori dal mio mondo; se lo vedevo in televisione con le sue canzoni recenti cambiavo canale. Solo l’anno scorso ho avuto un piccolo riavvicinamento, con la reunion tra lui e De Gregori a oltre 30 anni da Banana Republic. Non sono andato a vederli, ma il doppio CD dal vivo era stato un gradito regalo di Natale: quasi tutti i classici, la curiosità di sentirli fatti insieme, e molto bene. Ma è stato con la sua morte e con l’onda anomala che questi eventi scatenano nella coscienza (quella collettiva e quella individuale), che queste canzoni sono tornate al loro posto: tra le mie preferite di tutti i tempi in Italia.

Registrato con la semplicità dei mezzi tecnici di quegli anni, Lucio Dalla del 1979 è invecchiato quasi tutto benissimo, grazie ad arrangiamenti scelti e curati con grande perizia insieme a Ron ed ai musicisti che poco dopo avrebbero formato gli Stadio. Tra i fattori che rendono la musica di quegli anni (tra il 1977 e il 1982) così “classica”, ce n’è uno di tipo generazionale che secondo me è stato poco approfondito. E’ stato un momento irripetibile in cui il gusto dei musicisti di quella generazione (non solo la prima fila dei cantautori e dei leader, anche, forse soprattutto, le seconde file di collaboratori e session men) si è affinato sfiorando da vicino quello del pop-rock di qualità britannico e soprattutto americano degli anni ’70. Una maturazione artistica che ha generato una fioritura così ricca e importante da costituire un canone per tutte le generazioni seguenti. Non importa se negli stessi anni punk e new wave cambiarono tutto e spinsero la musica giovane in mondi lontanissimi: per noi, in Italia, i cantautori e le decine di album entrati nella nostra storia sono classici di quell’epoca e di tutte le epoche, anche grazie a suoni essenziali ma brillanti nel mettere a frutto anni e anni di ascolto del grande rock dei ’60 e dei ’70.

L’inizio, con L’ultima luna, rappresenta tutto questo perfettamente. Un pezzo di una freschezza straordinaria, 33 anni dopo ancora affascinante nella sua visionarietà, una incredibile successione di immagini rimaste indelebili nella memoria, dall’angelo di Dio che “bestemmiava facendo sforzi di petto” al signore “che con la morte vicino giocava a bigliardino”, dalla terza luna “così grande che più di uno pensò al Padreterno” al bimbo appena nato che “con grandi ali prese la luna tra le mani, e volò via e volò via, era l’uomo di domani”… Musica e parole si uniscono perfettamente, anche se qualche suono è evidentemente datato va ancora tutto benissimo, tale è la forza di questa canzone, con il ritmo squadrato che la spinge senza varianti, forse una strana, irresistibile mutazione genetica proveniente dalla disco che stava dominando sul rock ormai da diversi anni.

Anche il pezzo che apriva il lato B dell’album ha la naturale autorevolezza del classico che ascolteremo senza problemi dopo altri decenni. Anna e Marco è bellissima anche se il romanticismo di periferia del testo è stato sfruttato fino alla nausea, anche se tra violini, cori ed echi l’arrangiamento è un manuale di tutto ciò che non si può più fare, anche se… ma basta la voce che aveva Lucio in questi anni per far volare Anna, Marco, il branco, la checca che fa il tifo e il cane che sente qualcosa in una dimensione trascendentale. C’è quel punto in cui canta “Luna che cammina…” che è fuori dalla portata di chiunque; non lo so, ma mi auguro che non esistano cover di questo pezzo. Ed un’altra canzone che nessuno mi deve toccare è Cosa sarà. Una di quelle idee musicali semplici al limite dell’inconsistenza, ma che con parole ispiratissime ed un legame speciale come quello vissuto in quegli anni tra Dalla e De Gregori entra nell’anima, dicendo con leggerezza assoluta tutto il mistero della vita. Cosa sarà che dobbiamo cercare? Già a 15 anni capivi ascoltandola che le domande erano tutte, precisamente, quelle; ma adesso, quanto avremmo bisogno di quella bicicletta da lasciare sul muro; e di una sera, e di un amico… E, soprattutto, di parlare del futuro.

Per tanti anni mi sono lasciato indietro queste canzoni troppo familiari e Dalla troppo lontano da quello che mi interessava. Anche se sapevo di conoscere a memoria L’anno che verrà, quando si è trattato di cantarla a Conventional Baby N°1 per farla addormentare mi sono stupito di sapere veramente tutte le parole. E in tante sere in cui l’ho scelta (nel ristretto repertorio di quelle che mi ricordo e che le piacciono), le parole le ho imparate nuovamente, cantandole sottovoce ed ascoltandole, con tutta la distanza degli anni tra me e lei. E di questa canzone posso dire con assoluta certezza che resterà sempre con noi, tutti gli anni e tutte le sere; così come, d’altra parte, “i troppo furbi e i cretini di ogni età”

Ricordavo bene anche le altre canzoni di questo bellissimo disco, anche quelle che di solito non fanno parte di raccolte e antologie (ma solo perchè stanno sullo stesso album delle altre). Stella di mare, Milano, Tango, La signora… Queste le ho riscoperte con ancor più soddisfazione, perchè meno intaccate dai troppi ascolti, soprattutto da quelli più o meno casuali o forzati che appesantiscono le canzoni più famose. Stanno anche loro là, in quegli anni di adolescenza fatti di giorni tutti uguali, ma in ognuno di essi aprivi nuove porte e ci trovavi nuovi mondi. Anche il mio primissimo concerto sta lì in mezzo, autunno dell’83, Dalla al Teatro Lirico: in penultima fila con Vittorio (che non vedo praticamente da allora) e Saul (che è morto qualche anno fa). Milano, in particolare, è le prime volte che ci andavo, ed anche se la conoscevo poco era facilissimo riconoscerla in quelle parole un po’ amare e un po’ affettuose.

L’unica che proprio non c’era più, sparita nei meandri del mio disco fisso, è Notte. Forse più piccola delle altre, ma anche lei perfetta. Una successione di immagini su una progressione melodica che 30 anni dopo mi riappare all’improvviso, e non è vero che non c’era più ma stava sotto troppe canzoni, troppi giorni e troppe notti. Immagini e melodia che senza saperlo avevano costruito la mia idea della notte, quella così intima e mia che poi le note e le parole le ho potute, addirittura, dimenticare. Mi è ritornata nelle orecchie una mattina attraverso le cuffie e quando è culminata nella partitura finale con gli archi a vele spiegate è come se un pezzo di vita si fosse riattaccato al suo posto, perchè quando un disco ti ha riempito anche dopo anni può farti sentire completo.

Lucio Dalla del 1979 è anche la sua iconografica copertina, forse la più bella immagine di Lucio, senza scritte. Ancora giovane ma già maturo, magro e con tutti i segni particolari in evidenza: la barba, gli occhialini e quel cappello. Questa foto ha una luce dorata e crepuscolare, un colore ambrato ed un calore che ho sempre istintivamente accostato al feeling degli anni ’70, all’intensità che la musica, il cinema e la letteratura hanno avuto in quel decennio e che ancora oggi, a tutte le età, siamo in tanti a ricercare ed amare. Anche questo mi impediva di comprare il CD sfigato che si trovava nei negozi: quella foto non era più lei, opaca e priva di quell’alone un po’ mitico che la lucida copertina dell’LP trasmetteva. Per una volta, allora, va bene anche l’edicola, perchè un disco così pieno di vita deve essere anche un oggetto meraviglioso da tenere in mano e guardare.