25 25 (+1) after 89: LET LOVE RULE – LENNY KRAVITZ (25/25)

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L’ultimo disco del 1989 è anche il primo degli anni 90.

Non ce n’è uno solo, di primo disco degli anni 90. Dipende dalla storia che vuoi raccontare. In quella che ho raccontato io, e che sta per finire, ci sta bene che sia Let love rule, l’esordio di Lenny Kravitz. E che venga subito dopo Hats dei Blue Nile, e quello che ho scritto sulla musica degli anni 80.

Per noi rockettari fu facilissimo accorgersi di Lenny ed apprezzare Let love rule. Oggi non sembra una scelta così particolare, ma allora tutti quei suoni vintage e quelle melodie coloratissime (e “di colore”) arrivarono come un Ufo, dopo un decennio di sintetizzatori, batterie elettroniche e minimalismi indie o punk. Lenny Kravitz fu il segnale più chiaro ed inequivocabile che il vento era definitivamente girato: suoni veri, classici, modelli ambiziosissimi. Beatles, Traffic, Southern Rock, Stax, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, Jimi Hendrix, Psichedelia… Roba che in heavy rotation su Mtv e nelle radio non ci andava da 20 anni e che riscoperta in quell’epoca suonava antichissima e freschissima nello stesso tempo. Non è certo solo “colpa” sua: ma sicuramente è stato uno dei primissimi ad inoculare il germe della Retromania che oggi domina le nostre generazioni (e non solo). Era divertente, era cool e soprattutto sprigionava un talento incontenibile. Entrando nei 90s, i suoi dreadlocks e le sue freakerie estetiche si trovarono in perfetta sintonia col ritorno del rock che tra il ’91 e il ’97 ha determinato forse l’ultima stagione significativa a livello generazionale. Più di Let love rule, il suo album più memorabile secondo me è stato Mama said: un po’ meno Beatles, un po’ più black e strapieno di meravigliose chitarre elettriche (il miglior momento dell’intera carriera di Slash è Always on the run…).

Ma la vera scintilla di quest’album uscito negli ultimi mesi del 1989 e degli anni 80 è proprio il suo ingrediente principale. L’elefante (indiano) che rientrava nella stanza: il fattore Beatles. Anche in questo caso, non saprei dire quanto pesino i percorsi personali rispetto alle evoluzioni generazionali. Ma per me i Beatles sono la pietra angolare su cui poggia tutta la mia esperienza musicale. Quindi una delle Fonti della Vita. La mia esistenza ha cambiato percorso la mattina del 9 dicembre 1980, quando la radiosveglia vicino al mio letto si accese con il GR delle 7 e 30 con la notizia dell’assassinio di John Lennon. Avevo 13 anni, e fino a quel momento Beatles e Lennon erano nomi solo vagamente familiari, la musica in generale una colonna sonora più o meno casuale. Quell’evento fece nascere in me un desiderio di conoscere tutto quello che potevo trovare sui Beatles e la loro musica. Ricordo di aver guardato completamente rapito, qualche giorno dopo, Jocelyn a Discoring che presentava il cofanetto The Beatles Collection, contenente tutti i 14 LP pubblicati: li passò in rassegna uno dopo l’altro, mentre in sottofondo si sentivano frammenti di alcune canzoni, fino ad arrivare a Let it be.

LET
IT
BE

Per anni rimase la mia canzone preferita, un’ossessione dentro la passione sempre più totale per John Paul George e Ringo. Passione totale, ma parziale. Perché anche se li apprezzo, i Beatles prima del 1965 sono una passione normale; ma la botta fatale sono i Beatles da Rubber soul in poi. Le canzoni della seconda fase dei Beatles sono il Canone a cui mi sono sempre riferito, l’imprinting indelebile anche se passano anni senza riascoltarli. Ma nei primi anni 80 erano la base delle mie diete musicali, insieme alla scoperta dei grandi del passato ed alla graduale consapevolezza che anche in quel decennio uscivano album bellissimi e che il rock aveva un presente ed un futuro. Eppure, soprattutto all’inizio, la mia scoperta dei Beatles e la scelta preadolescente di farli diventare La Mia Musica, erano anche una reazione ad un presente così privo di Beatles (e di anni 60). Il pop elettronico, il post-punk, l’hard rock (per non parlare della dance) componevano uno scenario lontanissimo dai sogni dei sixties, cinico, postmoderno e futurista; i Beatles erano solo uno dei mille ingredienti utilizzabili in quelle nuove grammatiche sonore in continua evoluzione. In questi giorni ho riascoltato anche un altro album ultra beatlesiano degli anni 80: Skylarking degli XTC (nella recente versione che ha corretto gli errori di masterizzazione dell’originale del 1986). Ebbene, anche se l’ispirazione di quasi tutti i pezzi era evidentemente Beatles al 100%, l’approccio era 100% anni 80: nel modo di trattare quei materiali musicali, era evidente che prevaleva tutto ciò che era venuto dopo i Beatles. Tutto il contrario di Lenny Kravitz, il cui obiettivo era riproporre fedelmente lo spirito e la lettera del mitico passato.
Da questo punto di vista, probabilmente fu la stessa scomparsa di Lennon a determinare quel decennio senza Beatles. L’eredità di Double fantasy lasciava il ricordo di un artista in continua evoluzione, mentre anche McCartney e gli altri ex Beatles solo occasionalmente strizzarono l’occhio al loro monumentale passato, preferendo realizzare dischi nei tempi e nei modi che gli interessavano. Per me, quindi, era come se il passato di cui mi ero innamorato ed il presente che mi appassionava fossero due mondi separati ed inconciliabili. Ritrovarmeli riuniti in un nuovo artista era fantastico. Ed una suggestione si faceva strada: gli anni 90 sarebbero stati (almeno un po’) i nostri anni 60?

Fermiamoci qui. Fermiamoci su questo confine invisibile, senza più muri e con le geografie da riscrivere. Limitiamoci a constatare che sì, i 90s si riempirono di 60s e di Beatles: addirittura, per un anno (o un mese, o un giorno solo, a seconda dei punti di vista) si avverò almeno una volta l’eterna chimera dei Nuovi Beatles, con gli Oasis ed una manciata di canzoni come quelle senza essere come quelle. Quanto alla realizzazione delle speranze e delle mille potenzialità che attraversarono la soglia del 1989, insieme ai muri, in questi 25 (+1) anni, è crollato tutto il mondo come lo conoscevamo. È un’epoca senza punti di riferimento, in particolare nella musica che si è “liquefatta”, anzi smaterializzata. Se tutta questa Storia ha avuto un senso, se la piccola storia di questa serie deve avere una conclusione, non è nel Mondo Nuovo che cercavamo al di là del Muro e che non abbiamo trovato; piuttosto è nell’Uomo di Tienanmen che si mette davanti ai carri armati. Quelli che ci sono stati, che ci sono e che ci saranno. L’Uomo che solleva la testa, che vuole cambiare, che ci prova: cento volte travolto sconfitto umiliato, ma quando c’è, lascia sempre una traccia nella Storia. E quando vince, vincono tutti. In quel giorno magnifico degli anni 90 in cui gli Oasis toccarono il cielo dei Beatles, Noel Gallagher cantò uno dei suoi versi più lucidi e ispirati:

Please don’t put your life in the hands
Of a rock’n’roll band
Who’ll throw it all away

Ed è andata proprio così. Don’t look back in anger: non dobbiamo rimpiangere il Muro ed il Futuro che non è arrivato. Non dobbiamo aspettare la prossima band che spaccherà il mondo e farà la nuova rivoluzione. Dobbiamo cercare l’Uomo, ogni Uomo che procede in direzione ostinata e contraria. Does anybody out there even care? Sì, finchè ci sarà qualcuno che pensa scrive suona crea cose più grandi della vita.

Let Love Rule.
Let It Be.

Avrei finito.
Ma proprio oggi mi sono imbattuto in questa foto. E allora, il 1989 lo salutiamo così.
La data non è precisa, comunque circa 1990.

Tre balordi, fatti come coppertoni.

Il primo è il leader di una delle band più cool di Manchester, la città più cool dell’universo: il loro primo album esce e va dritto in testa alle classifiche.
Il secondo è il leader della band con la canzone pop più perfetta dell’universo: tutti scommettono che esploderanno ancora più di quelli di Manchester (e poi sono di Liverpool come i Beatles…).
Il terzo è un fan del primo, ed è appena diventato un roadie per quella band.

Oggi.
Clint Boon ha riformato i suoi Inspiral Carpets. Ce li ricordiamo solo noi 40/50enni fighetti, ma se venissero a suonare dalle nostre parti pochissimi ci andrebbero: come si fa, il lavoro, la famiglia…
Lee Mavers ed i suoi La’s hanno inciso un solo album. Lui si è perso, un po’ come Syd Barrett o Brian Wilson. Chissà se si ritroverà mai. Comunque, There she goes è un classico senza tempo: Radio Capital, tra altri 25 anni, la trasmetterà ancora…
Noel Gallagher ha smesso di fare il roadie, è entrato nella band di suo fratello ed ha pensato che potevano essere come i Beatles (anche se non erano di Liverpool). Per un anno (o un mese, o un giorno solo) ci sono riusciti. Forse tra un po’ di tempo farà la pace con suo fratello. Forse canzoni come quelle non ne farà mai più.

Ma forse, da qualche parte, qualche altro ragazzo ha chiesto alla sua band preferita di fare il roadie…

45 45s at 45: LIVE FOREVER – OASIS, 1994 (32/45)

Sdraiato sull’erba, sotto il tendone di uno dei palchi minori del festival di Reading del 1996, mentre aspettavo l’inizio della prossima band, dall’impianto del main stage è partita Live forever. Ho vissuto una sensazione unica: nel mio corpo si sono mixate endorfine ed adrenalina; raramente mi sono sentito così bene, in perfetta sintonia con l’aspirazione all’immortalità ed alla giovinezza eterna di questa canzone. A scanso d’equivoci: non ho mai preso droghe, e nemmeno avevo bevuto… E’ solo che in quel momento preciso ed in quel punto dello spazio, ho sentito fino in fondo la grandezza degli Oasis.

Da 2 anni ormai la loro ascesa era inarrestabile. Definitely maybe fu uno degli esordi più irresistibili di tutti i tempi; Whatever, a cavallo tra il ’94 e il ’95, dichiarò in modo ancora più esplicito che la loro ambizione non aveva limiti, puntava direttamente ai Beatles; ed alla fine dell’estate del ’95 (What’s the story) Morning glory? realizzò l’impossibile: l’indie-rock aveva generato i nuovi Beatles.

Non era vero neanche stavolta, i nuovi Beatles non ci saranno mai. Però con gli Oasis successe qualcos’altro, qualcosa di molto inglese e comunque comprensibile in tutto il mondo, one nation under a groove ma veramente, non tanto per dire. In quei 2 anni, ogni loro canzone sprigionava un’energia incontenibile, così tanta da generare decine di band ed un’onda di ritorno con quella definizione, Brit-Pop, che altrettanto rapidamente fece spegnere tutto.

Non stava bene ascoltare gli Oasis, Anselmo disapprovava, Mario ironizzava, sarà mica rock quella roba? Lì sul prato di Reading, una volta per tutte, mi fu chiaro che le canzoni che sollevano da terra e fanno volare in cielo non sono giuste o sbagliate, sono fortissime e cambiano il mondo, anche solo per 3 minuti e solo per qualcuno. Ero lì, a vivere per 3 giorni dalla mattina alla sera in mezzo a musica fantastica, stavo per incontrare le più perfette ed effimere illusioni della mia vita, e volevo viverle per sempre. Sicuramente, forse.