25 25 (+1) after 89: OH MERCY – BOB DYLAN (19/25)

3992197_165

Allmusic: una cosa meravigliosa. L’app è uno dei primissimi motivi per possedere uno smartphone. Trovare TUTTO in poche frazioni di secondo. E con giudizi e valutazioni, nel 90% dei casi, condivisibili ed equilibrati. Ma ogni tanto, porca di quella troia. Come vorrei non avere cercato, per curiosità, cosa diceva di Oh mercy. Trestellemmezzo. Il voto preferito del Busca. L’Aurea Mediocrità elargita a piene mani. Ad Oh mercy, porca di quella puttana. “Over the years, Oh mercy hasn’t aged particularly well…”, si stiracchia annoiato Stephen Thomas Erlewine, stremato dal milione e mezzo di reviews redatte. Per lui è invecchiato meglio Empire burlesque, 4 stelle e mezzo ai suoi suoni da discarica anni ’80. E Christmas in the heart vale solo mezza stella meno di Oh mercy…

Sono fisime da nerd musicali, certo, alimentate da questa infinita disponibilità di siti e social network… Però qui l’incazzatura è per me più genuina: perché Oh mercy era grandissimo 25(+1) anni fa, quando riportava Dylan nel cuore di tanti come me; Oh mercy c’è sempre stato, in tutti questi anni, quando avevo bisogno del Dylan giusto per decifrare i vari passaggi nella vita da adulto, con le infinite fini della giovinezza; ed Oh mercy è qua, adesso che ho gli stessi anni di Dylan allora, a dirmi perfettamente le cose come sono e come saranno. Se c’è un centro di gravità in oltre 50 anni di Dylan, secondo me è dentro questo disco. Quanto può fare in stellette non lo so, ma so che invecchieremo, e bene, insieme.

Most of the time
My head is on straight
Most of the time
I’m strong enough not to hate
I don’t build up illusion
‘till it makes me sick
I ain’t afraid of confusion
No matter how thick
I can smile in the face
Of mankind
Don’t even remember
What her lips felt like on mine
Most of the time

La maggior parte del tempo sono esattamente come Most of the time. Riesco a sorridere di fronte all’umanità. Però ci sono anche i momenti, troppi, in cui I’m like all the rest. È proprio così: la mia vita oscilla costantemente tra la traccia 6 e la 7 di Oh mercy, Most of the time e What good am I? Sempre convinto che la prossima volta non sbaglierò, che adesso ho capito, che d’ora in poi… Sempre con gli sprofondi dentro A che sono buono, io? Sempre più maturo e consapevole, ed eternamente adolescente. Perché è così: certi giorni ci sono solo domande, e certi giorni troviamo le risposte. E intanto, le cose sono cambiate.

Things have changed è la canzone con cui, praticamente sempre, apre i concerti in questi ultimi anni di Never Ending Tour. Uscì 10 anni dopo Oh mercy (la scrisse per la colonna sonora del film Wonder boys e vinse anche l’Oscar) ed è forse la The future di Bob Dylan. Non è una profezia visionaria del futuro come il brano di Cohen con cui abbiamo iniziato questa serie, ma una visione del futuro che è arrivato e che ci sfugge di mano ogni giorno. Del resto, il tempo delle profezie per Dylan furono gli anni 60: the times they are a-changin’. E quando finalmente i muri crollarono, la sua nuova vita era già iniziata: un tour che non finisce mai, le canzoni vecchie e quelle nuove che si incrociano, essere Bob Dylan anche a 50, 60, 70 anni. Adesso è chiaro: dopo aver inventato il rock adulto, quello che cambia le vite, da Oh mercy in poi Dylan ha inventato il rock della vecchiaia, vivendo in prima persona la dignità necessaria per non rinnegare nulla di quello che non riusciremo mai a realizzare.

È questa la Grandezza che incontri se vai a vedere un concerto del Never Ending Tour. Ciò che si perdono quelli che ci vanno sperando di rivivere il mito degli anni 60. Dylan non è un artista del passato che mette in scena ricordi ed emozioni di altri tempi. Dylan è uno degli artisti di oggi più appassionanti da seguire: vive il presente, la contemporaneità, perché è un uomo, e la sua vecchiaia non è una diminuzione, o un ostacolo. Il rock che invecchia è una delle cose più interessanti che ci è dato di ascoltare oggi, e non c’è un momento in cui lo capisci meglio di quando alla fine del concerto sei lì che lo applaudi, mentre lui sta immobile a gambe larghe, guarda il pubblico senza dire una parola.

L’ultima volta a Lucca, neanche un mese fa, forse il momento più memorabile è stato quando ha cantato, benissimo, Autumn leaves. Per esprimere il tempo del rimpianto (and soon I’ll hear old winter’s songs) che un uomo vecchio ha, Bob Dylan non ha una canzone sua, o comunque quella che sceglie fa parte del repertorio di Yves Montand, e poi di Frank Sinatra, ed è incredibile come quella voce, la sua voce di vecchio, si moduli perfettamente su quelle parole e quelle note. La situazione di Lucca è una piazza dispersiva, scomoda e distratta, non va bene per un concerto così. Manca la concentrazione necessaria per apprezzare canzoni ed esecuzioni così intime e profonde e solo in due o tre occasioni c’è una risposta del pubblico per i pochi brani noti (comunque rielaborati con il suono denso e raffinato della sua band, completamente assorbita dentro ogni suo cenno e sussulto).

Quella sera resta memorabile anche perchè prima di lui si è esibito Francesco De Gregori. Un’ispirazione fedele e costante da oltre 40 anni, da una distanza più che oceanica, siderale… Vederli uno dopo l’altro mette in evidenza tutte le analogie e le differenze, ma soprattutto la sostanza di cosa, di Dylan, De Gregori ha compreso amato restituito con le sue canzoni. Un modo di stare al mondo, di costruire un’identità di artista precisa ed in continua evoluzione, ed ora di invecchiare in pubblico. DeGregori “copia” Dylan anche nel modo di scegliere canzoni vecchie e nuove e di rappresentarle con la sua voce di oggi, con i suoni che, anche lui, nutre elabora affina ogni volta. De Gregori “copia” Dylan anche nel modo di proporre le sue performance in questo tempo, della Storia e della vita: non un Never Ending Tour perché non può girare il mondo come Dylan, ma un’apertura generosa (e prima, al contrario, continuamente rifuggita) a tutte le situazioni più vicine e facili per il pubblico, tv duetti posti turistici centri commerciali. De Gregori all’outlet di Serravalle (Dio lo perdoni) è la più perfetta interpretazione della forza di affrontare il mondo che Dylan mette in campo da oltre 25 anni con il suo tour infinito. Quella sera a Lucca, De Gregori ha messo con pudore e riconoscenza un’ora della sua arte al cospetto di Bob Dylan: La leva calcistica, La donna cannone, Rimmel… La grandezza di De Gregori è per noi italiani la misura più perfetta della Grandezza di Dylan.

We live in a political world
Where mercy walks the plank
Life is in mirrors, death disappears
Up the steps into the nearest bank

We live in a political world
Where courage is a thing of the past
Houses are haunted, children are unwanted
The next day could be your last

We live in a political world
The one we can see and can feel
But there’s no one to check, it’s all a stacked deck
We all know for sure that it’s real

We live in a political world
In the cities of lonesome fear
Little by little you turn in the middle
But you’re never sure why you’re here

Viviamo in un mondo politico. E’ una canzone del 1989, ma è veramente il baricentro di 50 anni di Dylan. Del ragazzo che omaggia Woody Guthrie alle marce di protesta e del vecchio che chiude il Letterman Show con The night we called it a day di Frank Sinatra. E di tutti i Dylan che ci sono stati in mezzo. Viviamo in un mondo politico, lo stesso mondo che c’era prima di Dylan, lo stesso di quando c’era il Muro e lo stesso di ora che il Muro non c’è più. Viviamo in un mondo politico anche se crollano i Muri ed arrivano le Primavere; e se il coraggio è una cosa del passato, allora è proprio quella la cosa da reclamare indietro. Give me back the courage: così sarebbe stato il chorus di una The future di Bob Dylan, perché è così che ha vissuto tutti questi anni, perché è il coraggio l’unica cosa che può fare la differenza.

Ring them bells for the blind and the deaf,
Ring them bells for all of us who are left,
Ring them bells for the chosen few
Who will judge the many when the game is through.
Ring them bells, for the time that flies,
For the child that cries
When innocence dies.

Ring them bells St. Catherine
From the top of the room,
Ring them from the fortress
For the lilies that bloom.
Oh the lines are long
And the fighting is strong
And they’re breaking down the distance
Between right and wrong.

Le cose sono cambiate. Ogni cosa è rotta. Un sacco di gente soffre per il male della presunzione. Lei è sparita con l’uomo dal lungo mantello nero.
Oh pietà…
Ma c’è una luce che non si spegne mai nel dolore e nell’oscurità di Oh mercy. E’ la quarta dimensione del suono tridimensionale che Daniel Lanois diede a queste canzoni. Un suono incredibile e senza tempo (altro che “non invecchiato particolarmente bene”…), che Dylan ha continuato a perseguire, con i musicisti raffinatissimi ed americanissimi di cui si è circondato in tutti questi anni, con risultati eccellenti, che rappresentano una delle ragioni del fascino del Never Ending Tour. Ma quello che ottenne Lanois in Oh mercy rimane insuperabile, il suo capolavoro in perfetto equilibrio tra le produzioni per gli U2 e per i Neville Brothers.
Lo puoi suonare per tutta la vita Oh mercy, e non ti lascerà mai dentro buio e amarezza. E’ un album che ti riempie come poche cose al mondo e che risuoneresti subito dopo che è finito. Lo porti nell’anima e te lo fai risuonare dentro, come l’eco delle campane di Ring them bells. E a volte, qualcosa che era rotto si aggiusta.