Le playlist di fine anno sono sempre di più un tentativo vano di fissare degli ordini di priorità nell’oceano di ascolti possibili. Qualche giorno fa ne ho commentata una di un amico di Facebook, che mi ha risposto in tono autoironico che lui non era Mojo o Uncut. Ma in realtà ognuno di noi, ormai, vale come Mojo o Uncut! Ovviamente non in senso assoluto, ci mancherebbe altro; ma in modo strettamente relativo un po’ sì. Siamo tutti autorevolissimi, dentro la bollamediatica in cui ognuno di noi vive: tutte diverse e composte da un mix di media tradizionali, di web in tutte le sue forme e soprattutto della nostra cerchia di amici veri e virtuali che condividono tutto, e la musica in modo particolarmente efficace. Siamo tutti qui, sugli schermi degli smartphone e dei pc, con tutta la musica a disposizione e tutti i giudizi per scegliere questo o non scegliere quell’altro… L’unica cosa che scorre sempre uguale è il tempo… E alla fine, per ognuno di noi, il metro principale per valutare la musica rimane il tempo che passiamo con lei.
Prima di passare in rassegna le mie 5 scelte del 2017, recupero anche la Top 5 2016 che l’anno scorso avevo saltato: sembra che nei cicli di questo blog gli anni pari siano sempre penalizzati, senza che ve ne sia assolutamente alcun motivo, anzi…
1. David Bowie – Blackstar 2. PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project 3. Michael Kiwanuka – Love & Hate 4. Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth 5. Drive-By Truckers – American Band
Effettivamente la lista dell’anno scorso era di livello superiore. Quest’anno il distacco tra le mie prime scelte e gli altri album che mi sono piaciuti non è stato così forte. Ma il gioco è così, e alla fine le mie scelte sono state queste.
(Menzione speciale per il mio disco italiano dell’anno: Mauro Ermanno Giovanardi – La Mia Generazione)
5. THE MAGNETIC FIELDS – 50 SONGS MEMOIR
Nell’anno dei miei 50anni, una scelta obbligata. Che ha parzialmente ispirato la serie che sto portando avanti delle 50 Discographies. Stephen Merritt da questo punto di vista è un esempio eccezionale: tutto è possibile, 69 canzoni d’amore, 50 per ogni anno di vita, e dentro c’è sempre una storia, uno spunto, spesso un piccolo capolavoro. Ovviamente l’ascolto di un disco di 50 canzoni passa attraverso momenti di stanchezza e idee non particolarmente brillanti. Ma confrontare i propri 50 anni con quelli di questo musicista unico e totalmente libero è stato uno dei più bei regali in questo difficile passaggio del tempo.
4. RYAN ADAMS – PRISONER Roma, Gardone Riviera, doppietta all’Olympia Theatre di Dublino (la foto sulla testata è il pubblico della seconda, 12 settembre… in seconda fila si vede Conventional Wife!). Probabilmente averlo visto 4 volte nello stesso anno non consente di essere molto imparziali… ma il punto, nel 2017 e a 50 anni, è: che senso ha essere imparziali? Vedere questo Ryan Adams dal vivo, con le canzoni di un album come Prisoner, ogni volta con un inizio pazzesco come Do you still love me? (la canzone più bella dell’anno e una delle migliori della carriera di Ryan), mi ha fatto sentire e vivere questo disco come poche volte nella vita. E sono sempre più convinto della “profezia” della Discography 1/50: quando verrà scritta la storia della musica di questi anni, Ryan Adams ed album come Prisoner (che oggi a fatica entrano negli ultimi posti dei listoni di fine anno) saranno i primi ad essere ricordati.
3. THE DREAM SYNDICATE – HOW DID I FIND MYSELF HERE? “And you may ask yourself…”: le domande di Once in a lifetime dei Talking Heads, più di 35 anni dopo, non se ne sono mai andate via. Come ci siamo ritrovati QUI? Personalmente non avrei mai pensato, nel 2017, che avremmo avuto un altro disco dei Dream Syndicate. Meraviglioso che siano rinati con questa nuova formazione, che siano venuti fuori dei pezzi così ispirati e che abbiano convinto perfino Kendra Smith a tornare, almeno per una canzone. Non capisco chi pensa che li si apprezza solo per nostalgia del passato: in generale non desidero nessuna reunion, anzi di solito diffido per principio. Ma quando un disco è così bello, la suggestione di un nome glorioso è solo un dettaglio.
2. HURRAY FOR THE RIFF RAFF – THE NAVIGATOR
Alynda Segarra. Anche qui, se mi avessero detto che mi sarebbe piaciuta una con un nome così, non ci avrei creduto. Ed anche il nome assurdo del suo progetto finora mi aveva condizionato parecchio. Poi se mi fossi limitato a leggere recensioni su un disco di una folksinger che riscopre le sue radici portoricane e realizza un ciclo di canzoni su una ragazza che affronta le difficoltà economiche e sociali del mondo di oggi… me ne sarei tenuto lontano. Invece mi sono imbattuto in Hungry ghost (la seconda canzone più bella dell’anno) e ho capito che questa è un’altra delle donne che potrebbero salvare il rock (o rallentarne un po’ l’esaurimento). Tra gli acquisti del cuore del 2017 mi manca ancora il mini-album di Billy Bragg; ma uno dei segnali positivi degli ultimi anni è questo fare politica con la musica in modo personale e lontano dalla retorica, come Billy, PJ, Morrissey e personaggi ancora con un futuro da rischiare come Alynda.
1. LCD SOUNDSYSTEM – AMERICAN DREAM Appunto, le reunion sarebbe meglio evitarle. Per me loro dovevano fare come i Jam, i Clash, gli Smiths e gli Husker Du: pochi anni vissuti al massimo e non tornare mai più. Ma “loro” in realtà sono solo James Murphy, e in casi come questo non ci si riforma, ma ci si ricongiunge con un alter ego più grande della vita. Ed è andata così, il quarto album si è infilato perfettamente vicino agli altri tre, sempre dopo quello dei La’s e prima dei Led Zeppelin. Perfetto per me, in questo 2017 in cui mi sono perso nei 50 anni di un altro (50 songs memoir) e mi sono messo a riattraversare le mie 50 Discographies, prima di affrontare la prossima musica da cinquantenne: questo è il mio ultimo disco da quarantenne. Quello in cui si rallenta perchè si sa quando serve accelerare. Quello in cui si smette con l’ossessione della notte perchè i giorni diventano più preziosi. Quello in cui si perdono per sempre amicizie, idee, capelli, sogni americani e sogni europei. Quello in cui si perde per sempre anche David Bowie, ma si impara a ricordare senza rabbia.
Faithless Street (1995) – Whiskeytown Strangers Almanac (1997) – Whiskeytown | Deluxe Edition (2008) Heartbreaker (2000) | Deluxe Edition (2016) Pneumonia (2001) – Whiskeytown Gold (2001) Demolition (2002) Rock’n’Roll (2003) Love Is Hell (2003) Cold Roses (2005) – with The Cardinals Jacksonville City Nights (2005) – with The Cardinals 29 (2005) Easy Tiger (2007) Cardinology (2008) – with The Cardinals Ashes & Fire (2011) Ryan Adams (2014) Live at Carnegie Hall (2015) 1989 (2015) Prisoner (2017)
Noi fan di Ryan Adams sappiamo aspettare.
Sappiamo che lui torna sempre, anche quando lascia passare qualche anno tra un disco e l’altro. Anche quando segue qualcuna delle sue chimere, o semplicemente fa un giro a vuoto. Perchè se così non fosse, non sarebbe umano, con una produzione così fitta, strabordante nei periodi di maggior intensità.
E poi sappiamo aspettare voi.
Uno dopo l’altro arriverete tutti. O tornerete a riscoprire album che avevate ignorato, trascurato, dimenticato. Arriverà il giorno in cui Ryan, in prospettiva, occuperà un posto molto vicino ai grandissimi della canzone rock. E non saremo solo noi a saperlo, ma la maggior parte di voi, che questi dischi li amerete tutti, prima o poi.
Due album in teoria diversissimi, che in realtà finiscono per assomigliarsi moltissimo e che contengono dosi massicce di 1989. Sono usciti nell’anno appena passato a poca distanza l’uno dall’altro e li ho presi come un segno del destino indirizzato a me personalmente, giusto alla fine del mio percorso con i 25 25 after 89.
Gli album di cover sono, generalmente, episodi marginali all’interno di discografie in cui, a un certo punto, la vena si inaridisce e può servire una pausa di riflessione, o un giro su qualche strada laterale. Molto raramente queste operazioni possono aggiungere qualcosa di significativo nel percorso di un artista, men che meno nelle storie musicali di chi non è un fan sfegatato dei personaggi in questione. Stavolta, invece, varrebbe la pena per tutti di sfilare questi due dischi dalla scrollata veloce del pollice sul display dei social network, in cui ogni giorno visioniamo assaggiamo ignoriamo milioni di notizie e centinaia di proposte musicali… (Ryan Adams ha rifatto tutto 1989, l’album di grande successo della popstar Taylor Swift: che figata/che idea carina/che stronzata/che palle… De Gregori ha fatto un album di canzoni di Bob Dylan tradotte in italiano: finalmente/interessante/chi si crede di essere/che palle… Ed il fatto di avere a disposizione gratuitamente qualunque musica vecchia e nuova non aumenta le probabilità di concedere ai dischi almeno una possibilità. Anzi: quel senso di curiosità, o il desiderio di scoprire un disco di cui abbiamo sentito parlare, è stato annientato dalla facilità e rapidità di accesso: lo ascolterò più tardi/un’altra volta/ci sono troppe cose da sentire…).
Questi sono due album pieni di 2015 e pieni di 1989, e per questo ci raccontano molte cose dei 25 (+1) anni in mezzo.
1989 è il titolo di uno degli album americani di maggior successo del 21esimo secolo, so far: 8 milioni e 600mila copie a dicembre 2015, 6 singoli estratti, forse solo Adele ha raccolto di più in questi anni frammentatissimi. Taylor Swift è una cantante E autrice pop che ha evidentemente un fattore X in grado di intercettare il Grande Pubblico americano e mondiale. Generazionale e trasversale, tradizionalmente pop ma con sonorità contemporanee. In ogni caso, fortemente indigesto per ascoltatori appassionati di rock e/o lontani per estrazione culturale e generazionale. 1989 è l’anno di nascita della graziosissima Taylor, che quindi intendeva porre con questo titolo una linea di demarcazione, personale (i suoi primi 25 anni) e sociale (un anno carico di Storia, che qualcuno ha vissuto in diretta e che invece per la sua generazione fa parte del passato, o è “solo” un punto di partenza). Evidentemente questo fattore X ha colpito Ryan Adams e la sua discontinua genialità. E il colpo di genio, questa volta, è stato immergersi completamente in una di quelle “operazioni” che solitamente guardo con sospetto (anzi, con aperta ostilità). Reinterpretare tutto 1989 di Taylor Swift… Con tutto l’affetto da fan che ho per Ryan, la prima reazione è stata: “Mah…!”. Il pregiudizio, perfino per appassionati come me, è naturale: un’idea furbetta per avere visibilità sui social network e far circolare un nome perennemente sotto la soglia degli “artisti di culto”, con sempre meno speranze di fare il salto verso i grandi numeri. Nella migliore delle ipotesi, un divertente esercizio concettuale, con poca sostanza musicale.
Ed invece il 1989 di Ryan Adams mi ha conquistato dal primo ascolto e dopo qualche mese di frequentazione è entrato nel gruppetto degli “album indispensabili di Ryan Adams”. Per molti motivi. Ed il primo, paradossalmente, è che 1989 è diventato al 100% un album di Ryan Adams. Una lezione straordinaria: la materia prima di queste canzoni, pop di consumo pieno di ganci melodici, testi semplici pieni di giovinezza, è diventata sangue del sangue di questo quarantenne rocker di culto che in 20 anni di carriera ha sempre incasinato tutto, soprattutto quando si è trovato a maneggiare potenziali hit o svolte verso il successo. Proprio così: tecnicamente, lo strumento per appropriarsi di questi brani apparentemente così lontani dal suo stile (già comunque parecchio eclettico) sono gli arrangiamenti, completamente diversi dal pop modernissimo di Taylor; ma oltre alle velocità dimezzate o raddoppiate a seconda dei casi, ed agli strumenti utilizzati e combinati tra loro, la vera sorpresa è constatare, ascolto dopo ascolto, seguendo i testi con attenzione, come le abbia assimilate plasmate vissute di vita propria. Ed è quando realizzi questo che si apre un mondo di possibilità.
Un mondo in cui si può andare oltre i concetti di cover che abbiamo finora considerato, utilizzando intere canzoni ed album interi come fossero dei campionamenti con i quali si creano canzoni ed album completamente nuovi. E a pensarci bene, in quest’epoca in cui sembra tutto già visto ed inventato, e ci si rivolge sempre più esclusivamente al passato, questo spingersi oltre il limite del vivere le vite degli altri può essere un altro modo di dare nuovi significati alla sempre più negletta arte dell’album (conventional records or not). Ma anche senza questi voli pindarici, quello che ha fatto Ryan con 1989 apre la mente a nuove avventure nell’alta fedeltà.
Il disco è suonato e registrato abbastanza alla buona, in sessioni veloci, con pochi mezzi e poche rifiniture, ma con un pensiero quasi strategico nella scelta dei suoni da ottenere: un’evocazione di alcuni degli stili forti degli anni 80, rielaborati con la sensibilità e la consapevolezza degli anni 10 del 21° secolo. Un ottimo termine di paragone, in questo senso, è uno degli album più celebrati degli ultimi anni: Lost in the dream dei The War On Drugs. Al netto delle esagerazioni dei più entusiasti, uno dei meriti storici di questa band è quello di aver “osato” recuperare alcuni dei suoni con la peggiore reputazione in assoluto (il rock da FM americana anni 80) fondendoli con la tradizione chitarristica dell’indie rock di entrambe le sponde dell’Atlantico e con l’asciutta sintesi del rock di oggi. Fin dall’attacco di Welcome to New York si entra in un sound familiare e nuovissimo, un po’ Classic Rock ma con patinature ritmi ed artificialità da Golden Age di MTV, e poi svolte naturalissime nei mille rivoli dell’alternative rock. Tutto nella stessa canzone, con l’effetto spiazzante ed eccitante di sembrare un pezzo del 1989 scritto da una ragazza nata nel 1989.
E non è, onestamente, un disco perfetto: a parte la copertina stranamente scialba, l’esigenza di riproporre tutte le 13 canzoni dell’album originale fa fare a Ryan due o tre giri a vuoto con i brani meno ispirati (che magari in un’altra situazione sarebbero stati delle B-sides). Ma quando il gioco funziona, il risultato è gigantesco, epocale (per quanto un album possa esserlo, oggi). Shake it off, quello che era stato il singolo tormentone di questa reginetta delle classifiche, ha la faccia tosta di diventare una I’m on fire per il 21° secolo, sospesa e luminosa come una luna piena nel buio della notte, mentre le passa davanti come una nuvola Love will tear us apart. Il pop perfetto di Bad blood cambia sesso età e peso specifico e non puoi non pensare che se questa cosa fosse uscita non adesso, ma 15 anni fa, dopo l’exploit di Gold, Ryan Adams sarebbe diventato un nome così enorme che le battute sulla quasi omonimia con Bryan sarebbero girate esattamente al contrario… Canzoni che iniziano con le chitarre di Nebraska e finiscono con quelle degli Smiths. Ed è un gioco che Ryan ha sempre fatto, quello degli estremi degli anni 80 che si toccano; ma questa volta la magia è più completa, un album che sta in un 1989 che non esiste, non nelle vite di noi quarantenni e nemmeno nelle radici di una generazione che non ne potrà avere.
L’altro album “del destino” che ha incrociato i nostri percorsi intorno al 1989 fa a sua volta lo stesso gioco, riflesso in uno specchio. Qui le generazioni che si confrontano sono più vicine fra loro ma più lontane da noi: sono quelle precedenti, che l’89 lo vissero già nella maturità piena, e che adesso affrontano la vecchiaia, anzi la vita che non finisce mai. Fu proprio intorno al 1989 che Bob Dylan iniziò il Never Ending Tour, inventandosi un modo per continuare ad essere Bob Dylan senza essere più giovane. Francesco De Gregori ha sempre seguito Dylan con una fedeltà impossibile per qualsiasi altro fan, perchè lo ha fatto da artista, da cantautore, e (proprio come Dylan) ad un certo punto ha dovuto risolvere il problema non solo di crescere, ma di invecchiare in pubblico. Anche la decisione di realizzare questo album di traduzioni dylaniane potrebbe essere una reazione all’ultima opera del suo Maestro, Shadows in the night, a sua volta una raccolta di reinterpretazioni dal repertorio di Frank Sinatra. Di fronte alla “spudoratezza” di accostare a The Voice quella voce da sempre così orgogliosamente brutta da essere meravigliosa, anche De Gregori deve aver pensato che era ora di fare questo disco, che probabilmente gli circolava dentro da parecchio.
De Gregori canta Dylan a 64 anni suonati ed è spudorato fin dal titolo. Amore e furto cita uno degli album più significativi degli ultimi 25 anni di Dylan, ma è soprattutto la sintesi più perfetta del senso di queste traduzioni. Le due parole, quelle e solo quelle, insieme e non da sole, che spiegano che in questo disco c’è tantissimo De Gregori proprio perché c’è tantissimo Dylan. Sì, ma quale Dylan? Sicuramente non l’immaginetta cara all’italiano medio, rimasta prevalentemente ferma al folk singer dei primi album, o nel migliore dei casi all’icona degli anni ’70, da qualche parte tra Desire e il Live at Budokan. La prima scelta d’autore di De Gregori è stata proprio quella di tracciare un percorso trasversale, dagli anni 60 al 2001, attraverso canzoni meno conosciute e con una concentrazione estremamente significativa sul periodo meno considerato (gli anni 80), in particolare il nostro fatidico 1989…
L’attacco è stato per me un colpo al cuore: Sweetheart like you è una delle mie canzoni preferite da uno dei miei album preferiti, Infidels del 1983. Evidentemente molto amata anche da Francesco, che ne ha cesellato una versione curata in ogni dettaglio, lirico e musicale. Quel titolo, Un angioletto come te, all’inizio può sembrare lezioso e sdolcinato, e per molti l’impatto con questo brano scelto come singolo (o come cavolo si chiamano oggi) è stato condizionato da questo strano disagio; poi però lo riascolti, ci entri dentro e scopri un nuovo capolavoro dentro il capolavoro che conoscevi. La scelta delle parole, il phrasing del cantato, modellano l’italiano in lingua dylaniana; ed è un miracolo che avviene per la prima volta, dopo decenni di traduzioni letterali, letterarie o clamorosamente sbagliate (su tutte quella per me insopportabile e angosciante del famigerato Tito Schipa Jr.). Merito della sapienza e profondità del cantautore, ed anche della classe e padronanza della materia della sua band. Infidels è forse il disco meglio prodotto e suonato dell’intera discografia di Dylan (con Mark Knopfler alla guida e con Mick Taylor, Sly & Robbie ed Alan Clarke). Ebbene, i suoni e la cifra stilistica sono stati riprodotti con fedeltà assolutamente non calligrafica, anche perchè pur mancando il tocco elastico della leggendaria sezione ritmica giamaicana, l’andatura del brano riproduce splendidamente quel fluire coinvolgente e carismatico che caratterizza le migliori composizioni dylaniane.
Subito dopo c’è Gotta serve somebody, che a voler essere precisi non è degli anni 80 perché Slow train coming uscì nel 1979, ma che apriva il periodo cristiano di Bob Dylan, una conversione che gli causò il ripudio della maggioranza assoluta di un paio di generazioni, e per questo rappresenta l’inizio di quel periodo troppo poco valorizzato che De Gregori dimostra di prediligere. Servire qualcuno è un’altra versione riuscitissima, sicuramente più facile dell’Angioletto per la struttura regolare delle frasi, ma di efficacia micidiale nello scolpire tutti i risvolti del messaggio: NESSUNO è escluso, devi sempre servire qualcuno. Il primo salto indietro è nella metà degli anni 70 di Blood on the tracks: un Dylan già moderno anche se classico, quello coevo agli anni dell’esplosione creativa di De Gregori con Rimmel e Buffalo Bill. Si sente che con questa materia c’è una familiarità assoluta: anche If you see her, say hello è molto ben riuscita e d’altra parte Non dirle che non è così ha già una storia di approvazione ufficiale direttamente dall’autore, essendo stata inserita nel 2003 insieme ad altre cover di varia provenienza nella colonna sonora di Masked and anonymous (un film in cui Dylan era coinvolto anche come autore ed attore).
Ma con il salto negli anni 60 di Desolation row l’idillio si spezza. Anche Via della povertà è un ripescaggio, ma molto più antico, dai tempi della collaborazione con Fabrizio De André, che ne fece un piccolo classico. Qui dentro, invece, non funziona per niente, e non penso sia colpa della voce di Francesco, è proprio la canzone che non va, con quell’affollamento di immagini, personaggi e paradossi così fuori sintonia rispetto a come suona questo disco. Dieci minuti faticosissimi, da skippare senza pietà. Al contrario, I shall be released ci sta benissimo, combinando l’enfasi gospel dei sixties con il fatalismo pessimista proiettato nei 70. Un passaggio perfetto per rientrare nel cuore dell’album: gli oscuri e affascinanti 80s di Bob Dylan, così importanti e decisivi per il De Gregori di oggi.
Cosa abbia rappresentato Oh mercy nella discografia di Dylan ed in quel nostro fatidico 1989 lo abbiamo visto qualche mese fa. Per questo mi è sembrato un vero segno del destino ascoltare il Mondo politico di De Gregori poco tempo dopo averlo visto aprire il concerto di Bob Dylan a Lucca. Io me li immagino, lui e la band, nei camerini nelle ore precedenti, con la tentazione di uscire e suonare questa, invece della Leva calcistica… E poi in studio, con l’eccitazione fremente di farla, nel modo giusto, per metterla nel posto giusto. In questo album.
Viviamo in un mondo politico
l’unico a portata di mano
è bene ordinato
non ha responsabili
tocca crederci, noi ci crediamo.
Viviamo in un mondo politico
nelle città dove ci tocca stare
sopraffatti dalla paura
ma ci sei nato non te ne puoi andare.
Dall’inizio di Oh mercy al centro di gravità di Time out of mind, con Not dark yet. Se c’è una sola canzone con cui si può rappresentare il senso del rock degli ultimi decenni, il senso di suonare e fare ancora dischi dopo i 50 anni, dopo i 60, dopo i 70, è questa. La canzone che Francesco De Gregori non poteva non realizzare. E non è buio ancora, ma lo sarà fra un po’.
Ma non è un disco perfetto: come per Ryan Adams la copertina è quella che è, e soprattutto c’è da skippare violentemente anche Acido seminterrato, la pazza idea di tradurre Subterranean homesick blues… La canzone che Francesco De Gregori non doveva lontanamente pensare di realizzare. (Se fosse stato un album perfetto, in questo punto De Gregori avrebbe dovuto infilare Fiorellino #12&35, il colpo di genio che chiudeva Vivavoce, la sua monumentale raccolta di canzoni risuonate e ricantate, pubblicata alla fine del 2014. Delizioso doppio plagio dylaniano: la Buonanotte fiorellino originale, già ricalcata su Winterlude, viene autocoverizzata in mash-up con Rainy day women #12&35 da Blonde on blonde).
Ma poi, per fortuna, back to 1989: due delle tre canzoni finali di Amore e furto sono outtakes dalle session di Oh mercy. Scelte illuminatissime, da fuoriclasse: Series of dreams e Dignity, già riscattate da Dylan su raccolte degli anni 90, sembrano uscite direttamente dalla penna di De Gregori. Del De Gregori in stato di grazia, che non capita spesso: ogni tanto, una canzone per disco, e non in tutti i dischi; ma quando capita è il migliore, non ce n’è per nessuno.
E allora, ce n’era veramente bisogno?
Certo che no, se siete ragazze e ragazzi sani…
Mentre invece,
l’uomo malato che aspetta la cura
rivede se stesso com’era
e cerca nell’arte e nella letteratura
la dignità.
And the year 2000 won’t change anyone here… Così cantava Morrissey e un po’ aveva ragione, ma anche si sbagliava. La musica rallentò, mentre la Storia e la vita quotidiana raddoppiarono il ritmo. Internet, l’11 settembre e tutto il resto. Troppa bella musica, ma non abbastanza bella. A un certo punto decisi di smettere (dopo 10 anni) di prendere Rumore tutti i mesi ed il mio punto di riferimento fisso divenne definitivamente Uncut. Ero a Londra quando uscì il 1° numero nel ’97, notai la copertina con Elvis Costello e Taxi Driver, ma non lo comprai; l’anno dopo, invece, lo presi per la prima volta, il numero leggendario con Neil Young in copertina e la prima compilation di Americana. Praticamente inventarono un genere, ma a differenza di quelli inventati ed inconsistenti, questo c’era sempre stato, solo che ce l’eravamo tutti dimenticato.
All’inizio non mi lasciai convincere dall’entusiasmo con cui questi nuovi mensili inglesi (anche Mojo, che ormai era un’istituzione) riportavano alla luce la musica del passato, puntando i riflettori sulle nuove leve che sceglievano di rifarsi ai suoni delle radici. Ero ancora troppo attratto dalle mille direzioni esplorate durante gli anni ’90. Però acquistando Uncut ogni tanto, pian piano cominciai ad apprezzarlo sempre di più e a comprendere la scelta di campo per l’Americana e per i classici di ogni tempo. C’era molta più verità in queste scelte tradizionali che nella routine della continua ricerca di nuove tendenze che spazzano via quelle precedenti. E dopo una certa età si ha anche il desiderio di apprezzare tutti gli strati che hanno composto i propri gusti musicali, per cui guardare indietro non è nè sbagliato nè inutile: è semplicemente naturale.
Ryan Adams fu una delle prime, grandi dimostrazioni che Uncut aveva ragione. Avevo ignorato i Whiskeytown negli anni ’90 e quando uscì l’esordio solista Heartbreaker non ero ancora abbastanza convinto. Ma con Gold e l’ennesima recensione entusiastica scattò la scintilla. Il talento di Ryan Adams mi travolse; era vero, le sue canzoni erano fatte della materia dei classici regolarmente passati in rassegna: Dylan, The Band, Van Morrison, Neil Young, Grateful Dead, Rolling Stones… Gold poteva giocarsela alla grande con tutti quei dischi stupendi da cui traeva ispirazione, grazie anche al tocco di contemporaneità di uno che si è fatto le ossa negli anni del grunge e che ha imparato a memoria la discografia di Morrissey e degli Smiths. Un talento esagerato, che poi ha prodotto canzoni ed album in eccesso, forse senza un adeguato controllo di qualità, eppure sempre affascinante per questa urgenza espressiva e per un modo di essere artista privo di calcoli ed opportunismi. Un po’ genio e un po’ testa di minchia, comunque da 11 anni il primo della lista che aspettiamo di vedere in Italia dal vivo Conventional Wife ed io.
Gold partiva subito col passo del capolavoro con New York, New York e si librava in alto mantenendo quel livello fino alla fine. In un disco così è difficile scegliere una canzone preferita, ma sulla più importante non possono esserci dubbi. This video was shot on Friday September 7, 2001. Ryan Adams che canta davanti alle Torri Gemelle quattro giorni prima, le immagini di New York, l’album che usciva proprio in quei giorni. Involontariamente e inevitabilmente, tra i motivi che determinarono la strana aderenza di Gold con lo spirito del tempo, New York, New York celebrava la città del prima e del dopo, la continuità dei milioni di sogni che la rendono la città più bella del mondo, l’eterna innocenza del rock’n’roll e del crederci anche dopo tutto questo tempo.