Le playlist di fine anno sono sempre di più un tentativo vano di fissare degli ordini di priorità nell’oceano di ascolti possibili. Qualche giorno fa ne ho commentata una di un amico di Facebook, che mi ha risposto in tono autoironico che lui non era Mojo o Uncut. Ma in realtà ognuno di noi, ormai, vale come Mojo o Uncut! Ovviamente non in senso assoluto, ci mancherebbe altro; ma in modo strettamente relativo un po’ sì. Siamo tutti autorevolissimi, dentro la bollamediatica in cui ognuno di noi vive: tutte diverse e composte da un mix di media tradizionali, di web in tutte le sue forme e soprattutto della nostra cerchia di amici veri e virtuali che condividono tutto, e la musica in modo particolarmente efficace. Siamo tutti qui, sugli schermi degli smartphone e dei pc, con tutta la musica a disposizione e tutti i giudizi per scegliere questo o non scegliere quell’altro… L’unica cosa che scorre sempre uguale è il tempo… E alla fine, per ognuno di noi, il metro principale per valutare la musica rimane il tempo che passiamo con lei.
Prima di passare in rassegna le mie 5 scelte del 2017, recupero anche la Top 5 2016 che l’anno scorso avevo saltato: sembra che nei cicli di questo blog gli anni pari siano sempre penalizzati, senza che ve ne sia assolutamente alcun motivo, anzi…
1. David Bowie – Blackstar
2. PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project
3. Michael Kiwanuka – Love & Hate
4. Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth
5. Drive-By Truckers – American Band
Effettivamente la lista dell’anno scorso era di livello superiore. Quest’anno il distacco tra le mie prime scelte e gli altri album che mi sono piaciuti non è stato così forte. Ma il gioco è così, e alla fine le mie scelte sono state queste.
(Menzione speciale per il mio disco italiano dell’anno:
Mauro Ermanno Giovanardi – La Mia Generazione)
5. THE MAGNETIC FIELDS – 50 SONGS MEMOIR
Nell’anno dei miei 50anni, una scelta obbligata. Che ha parzialmente ispirato la serie che sto portando avanti delle 50 Discographies. Stephen Merritt da questo punto di vista è un esempio eccezionale: tutto è possibile, 69 canzoni d’amore, 50 per ogni anno di vita, e dentro c’è sempre una storia, uno spunto, spesso un piccolo capolavoro. Ovviamente l’ascolto di un disco di 50 canzoni passa attraverso momenti di stanchezza e idee non particolarmente brillanti. Ma confrontare i propri 50 anni con quelli di questo musicista unico e totalmente libero è stato uno dei più bei regali in questo difficile passaggio del tempo.
4. RYAN ADAMS – PRISONER
Roma, Gardone Riviera, doppietta all’Olympia Theatre di Dublino (la foto sulla testata è il pubblico della seconda, 12 settembre… in seconda fila si vede Conventional Wife!). Probabilmente averlo visto 4 volte nello stesso anno non consente di essere molto imparziali… ma il punto, nel 2017 e a 50 anni, è: che senso ha essere imparziali? Vedere questo Ryan Adams dal vivo, con le canzoni di un album come Prisoner, ogni volta con un inizio pazzesco come Do you still love me? (la canzone più bella dell’anno e una delle migliori della carriera di Ryan), mi ha fatto sentire e vivere questo disco come poche volte nella vita. E sono sempre più convinto della “profezia” della Discography 1/50: quando verrà scritta la storia della musica di questi anni, Ryan Adams ed album come Prisoner (che oggi a fatica entrano negli ultimi posti dei listoni di fine anno) saranno i primi ad essere ricordati.
3. THE DREAM SYNDICATE – HOW DID I FIND MYSELF HERE?
“And you may ask yourself…”: le domande di Once in a lifetime dei Talking Heads, più di 35 anni dopo, non se ne sono mai andate via. Come ci siamo ritrovati QUI? Personalmente non avrei mai pensato, nel 2017, che avremmo avuto un altro disco dei Dream Syndicate. Meraviglioso che siano rinati con questa nuova formazione, che siano venuti fuori dei pezzi così ispirati e che abbiano convinto perfino Kendra Smith a tornare, almeno per una canzone. Non capisco chi pensa che li si apprezza solo per nostalgia del passato: in generale non desidero nessuna reunion, anzi di solito diffido per principio. Ma quando un disco è così bello, la suggestione di un nome glorioso è solo un dettaglio.
2. HURRAY FOR THE RIFF RAFF – THE NAVIGATOR
Alynda Segarra. Anche qui, se mi avessero detto che mi sarebbe piaciuta una con un nome così, non ci avrei creduto. Ed anche il nome assurdo del suo progetto finora mi aveva condizionato parecchio. Poi se mi fossi limitato a leggere recensioni su un disco di una folksinger che riscopre le sue radici portoricane e realizza un ciclo di canzoni su una ragazza che affronta le difficoltà economiche e sociali del mondo di oggi… me ne sarei tenuto lontano. Invece mi sono imbattuto in Hungry ghost (la seconda canzone più bella dell’anno) e ho capito che questa è un’altra delle donne che potrebbero salvare il rock (o rallentarne un po’ l’esaurimento). Tra gli acquisti del cuore del 2017 mi manca ancora il mini-album di Billy Bragg; ma uno dei segnali positivi degli ultimi anni è questo fare politica con la musica in modo personale e lontano dalla retorica, come Billy, PJ, Morrissey e personaggi ancora con un futuro da rischiare come Alynda.
1. LCD SOUNDSYSTEM – AMERICAN DREAM
Appunto, le reunion sarebbe meglio evitarle. Per me loro dovevano fare come i Jam, i Clash, gli Smiths e gli Husker Du: pochi anni vissuti al massimo e non tornare mai più. Ma “loro” in realtà sono solo James Murphy, e in casi come questo non ci si riforma, ma ci si ricongiunge con un alter ego più grande della vita. Ed è andata così, il quarto album si è infilato perfettamente vicino agli altri tre, sempre dopo quello dei La’s e prima dei Led Zeppelin. Perfetto per me, in questo 2017 in cui mi sono perso nei 50 anni di un altro (50 songs memoir) e mi sono messo a riattraversare le mie 50 Discographies, prima di affrontare la prossima musica da cinquantenne: questo è il mio ultimo disco da quarantenne. Quello in cui si rallenta perchè si sa quando serve accelerare. Quello in cui si smette con l’ossessione della notte perchè i giorni diventano più preziosi. Quello in cui si perdono per sempre amicizie, idee, capelli, sogni americani e sogni europei. Quello in cui si perde per sempre anche David Bowie, ma si impara a ricordare senza rabbia.