Lo confermo ufficialmente: è questo il mio album preferito di Mark Lanegan.
Era uno dei tanti posseduti su cassetta duplicata e come tanti diventato difficile da trovare, per cui quando l’ho pescato a 10€ è stato come ritrovare un vecchio amico al quale si era rimasti affezionati. Nonostante il culto di Lanegan si sia fortemente radicato ed allargato in questi decenni, gli album che si vedono di più sono quelli successivi (usciti prima e dopo il 2000), a conferma di una tendenza generalizzata a considerare il miglior Lanegan quello più vicino in modo ortodosso alle radici blues, con i suoni cesellati e curatissimi pur nell’oscurità della materia prima; mentre questo disco del 1994, anche se è stato ristampato, sembra interessare molto meno.
Anche per Mark Lanegan si è ripetuto in modo molto simile quello che era già accaduto a Tom Waits e a Nick Cave: personaggi unici e maledetti, così caratterizzati da diventare col tempo involontariamente succubi del proprio stile e delle aspettative del loro pubblico. Il Lanegan che piace incarna il Santo Bevitore che canta meglio di tutti, inanella perle blues in album che sono collane lucidissime ed elegantissime da infilare in collezioni ultra classiche, ammessi al cospetto dei Led Zeppelin, degli Allman Brothers, di Stevie Ray o di Van The Man. Perfetto per quella fascia di pubblico che in Italia leggeva il vecchio Mucchio ed i cui superstiti si affidano al Buscadero. Che poi lui, in realtà, negli ultimi 10 anni ha fatto di tutto per spaziare e sfuggire ai cliché: collaborazioni con chiunque, soprattutto quella impossibile e durata ben tre album con l’esile Isobel Campbell, ed innesti di elettronica parecchio eretici per quel pubblico lì. Però è così: il Lanegan che finisce nelle enciclopedie è quello di Scraps at midnight, di I’ll take care of you o di Field songs.
Io invece preferisco questo Lanegan ancora con gli Screaming Trees come primo lavoro, che cerca sfogo fuori dalla Seattle capitale del rock anni 90 ma gli vengono fuori pezzi stupendi più sbilanciati verso il folk, sempre scurissimi e pieni di soul, ma più bianchi che neri. La matrice è ancora quella del cantante rock, anche se le chitarre si impennano solo nella notte allucinata di Borracho ed i ritmi sono prevalentemente quelli della ballata. Era un Mark Lanegan a cui non bastava più quel presente sotto riflettori fastidiosi ed effimeri, desideroso di classicità ma non ancora quella del blues delle radici, bensì il suono caldo e senza tempo dei 70s, America di backstreets e sole basso dietro le nuvole su città di provincia, che tra poco piove di nuovo e dove hai dormito la notte scorsa? Suoni antichi, ruvidi e fuori moda, ma era una nuova musica per la notte, la prima volta a bere un whisky con lo Spirito Santo, senza chiedere a Dio se avesse un momento…