50 Discographies at 50 – PJ HARVEY (17/50)

Dry (1992)
Rid Of Me (1993)
4-Track Demos (1993)
To Bring You My Love (1995)
Dance Hall At Louse Point (1996) – with John Parish
Is This Desire? (1998)
Stories From The City, Stories From The Sea (2000)
Uh Huh Her (2004)
The Peel Sessions (1991-2004) (2006)
White Chalk (2007)
A Woman A Man Walked By (2009) – with John Parish
Let England Shake (2011)
The Hope Six Demolition Project (2016)

La mia ragazza preferita, da sempre e per sempre. E l’artista più grande degli ultimi 10 anni. Di lei mi porto dietro tutto quanto, anche gli album ascoltati poco e che prima o poi riscoprirò. Mentre invece gli ultimi due hanno descritto nel modo più perfetto il mondo come è diventato, come sta inesorabilmente scivolando rotolando rallentando. Bello che sia stata proprio lei, la nostra ragazza meravigliosa e spietata nel raccontare sé stessa, i suoi amori, il suo mare e le sue città, a cambiare prospettiva e a raccontarci la nostra vita.

Le affinità e le divergenze con Patti Smith si sono moltiplicate, in questi 25 anni. Gigantesco è oggi il carisma di entrambe, ma quello di PJ generato non dall’istinto naturale e dalla forza del passato, bensì dal lavoro continuo sulla propria arte: songwriting in perfetto equilibrio tra immagini dirompenti e concetti limpidissimi, originalità di arrangiamenti semplici e geniali, perfezione e padronanza totale sul palco. E quanto le visioni di Patti hanno ispirato più di una generazione di artisti a partire dalla propria anima per conquistare il mondo, tanto Polly Jean ha imparato sul campo che tutto quel talento coltivato e reso rigoglioso doveva servire a qualcosa. Soprattutto in questo punto della Storia.

Nel vuoto culturale ed esistenziale che ha soffocato il rock in questi anni, e forse per sempre, PJ Harvey è l’ultima speranza per un’altra politica, un altro ruolo, un senso vero in tutta questa inutile bellezza. E questa è la mia Discography più piena di presente e di futuro.

45 45s at 45: DRESS – PJ HARVEY, 1992 (26/45)

In quel momento di grazia della storia del rock, avevo anche smesso di cercare i nuovi Smiths. Ma era un periodo in cui poteva davvero succedere di tutto: e così li trovai, i nuovi Smiths, ma erano una donna, una ragazza di nome Polly.

In realtà penso sia una convinzione solo mia, questo accostamento non credo sia mai stato fatto da nessuno. Eppure, oltre al riferimento naturale di Patti Smith, l’impatto con PJ Harvey fu per me molto simile a quello con gli Smiths degli inizi. Dress aveva un’energia ruvida che ti attirava e ti metteva a disagio; un modo di indossare gli abiti poveri dell’indie rock sapendo di essere fatti per tutt’altro tipo di stoffe; i riferimenti al sesso così crudi da diventare poesia. Su tutto, un’urgenza espressiva che si trova solo negli esordi più memorabili, quelli che si contano sulle dita di due mani.

Abbiamo passato 20 anni con lei; ci siamo allontanati e poi riavvicinati. L’anno scorso con Let England shake è tornata a livelli molto vicini a quei primi anni fantastici. Prima la scoperta mozzafiato di Dry, poi il capolavoro con l’anima a nudo di Rid of me e dopo 2 anni l’ascesa ad icona classica con To bring you my love. Tra i dischi che ho suonato di più in quei primi anni di radio, a Psychocandy e a Taxi Driver. Siamo rimasti sempre in contatto, anche se per diversi anni l’abbiamo guardata un po’ distratti, da lontano. Ed ora, in un’epoca così povera di musica importante, ha tirato fuori un disco bellissimo, in grado di raccontare questi anni di crisi con un senso della storia e con una spiritualità da grandissima artista.

Lei così minuta e capace, su un palco, di diventare una regina alta 50 piedi. Tra i concerti della vita, quello del ’95 al Vox Club di Nonantola. Gigantesca, si muoveva battendo a terra uno scettro enorme, ad ogni canzone faceva crescere un’onda di desiderio sempre più alta, e al culmine della tensione dopo un’ora e un quarto finisce tutto: coito interrotto, sublime e crudele, come svegliarsi dopo aver sognato Patti Smith & The Smiths…