25 25 after 89: THE STONE ROSES – THE STONE ROSES (14/25)

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Il New Musical Express nelle edicole della Stazione Centrale di Milano. A volte in quella di Piacenza. A volte il Melody Maker. Una o due settimane dopo che erano usciti in UK. Era così difficile. A pensarci oggi, semplicemente assurdo. Sulla stampa italiana niente di niente. A parte un’intervista su Velvet. E un articolone su Rockerilla (prestato da Mario). Forse è così che devono essere gli amori giovani. Difficili, semplicemente assurdi.

E poi c’erano solo quei dischi: l’LP e pochissimi 45 giri. Anche per questo, The Stone Roses è uno degli album che abbiamo ascoltato di più nella vita: non c’era nient’altro, se volevi gli Stone Roses. Gli Smiths in 4 anni avevano pubblicato 4 album, 2 raccolte e 18 singoli; gli Stone Roses, dopo 5 anni erano ancora fermi li’. Sfogliavo le paginone di NME, su cui ogni pretesto era buono per tirare in mezzo loro e la scena di Madchester, e quando arrivavo alle classifiche per anni e anni era sempre uguale. Indie Album, 1° posto: The Stone Roses. Indie Singles, 1° posto: Fool’s gold/What the world is waiting for (e 2° Made of Stone e 3° She bangs the drums…).

Gli Stone Roses erano il 1989. Ed anche il 1990 e il 1991, fino a quel giorno là, quello in cui è uscita dalla radio per la prima volta Smells like teen spirit. Ma esistevano solo per noi, collegati in differita con quella scena indie che dopo gli Smiths aveva ritrovato dei leader; ed anche questo è difficile da spiegare a chi non ha vissuto quell’epoca. Quando gli Smiths erano cresciuti, album dopo album, la loro popolarità era arrivata al confine tra essere i primi degli alternativi e giocarsela con i grandi del rock dell’epoca; così il loro scioglimento non era stato solo la perdita di un incrocio di talenti unico e irripetibile, ma anche il ridimensionamento improvviso ed apparentemente irreversibile delle ambizioni di tutta la scena indie. Anch’io sono stato e rimango affezionato alla spontaneità ed alla ruvida purezza delle band del periodo C86, ma era evidente che quel mondo parallelo, splendidamente chiuso in sè stesso, era un bel presente che non poteva essere il futuro.

Ecco, il vero motivo per cui gli Stone Roses sono stati così importanti è che hanno spalancato le porte del futuro. Con quei pochi dischi ci hanno fatti uscire, vivi, dagli anni ’80 e ci hanno portati, molto hungry e abbastanza fool, negli anni ’90. Quella manciata di canzoni erano nostre, contenevano tutti gli ingredienti più eccitanti della nostra estetica rock, ma potevano diventare di tutti.

Ho fatto ripartire Waterfall. Potrebbe essere un classico dei Byrds. No, non potrebbe. C’è qualcosa di moderno, nella ritmica, nel riff, nella struttura, che non può essere degli anni 60. Era sull’album d’esordio di una indie band come ne uscivano a decine, ma era già un classico, anche più dei singoli che avevano fatto puntare i riflettori su di loro in mezzo al mucchio. Erano nostri, 100% indie e anni ’80, ma erano anche senza tempo, con il fascino dei 60s sognati e mai vissuti e dei 90s ancora da sognare e da vivere.

I can feel the earth begin to move
I hear my needle hit the groove
And spiral through another day
I hear my song begin to say
Kiss me where the sun don’t shine
The past was yours
But the future’s mine
You’re all out of time

E’ ancora brillantissimo il suono di queste canzoni, vividissimo il ricordo di quello che iniettavano nel sangue. I am the Resurrection non ha perso il suo potere trascendentale, la ascolti e ci credi ancora: Io sono la Resurrezione ed Io sono la Vita. Sulla cassetta estiva dell’anno dopo, l’avevo messa vicino a You can’t always get what you want (la canzone più bella di tutti i tempi, se me lo chiedete in certi giorni), e ci stava troppo bene. Non possiamo sempre avere quello che vogliamo, ma siamo la Resurrezione, siamo la Vita. Essenza di rock’n’roll, trascendenza quotidiana. Tutto ciò che dovremmo sempre ricordarci, per diventare adulti, per invecchiare degnamente. Trascendenza che passa dalle mani di una band una volta sola, così che la possiamo rivivere per sempre, nei due assoli messi alla fine, fatti di groove e di niente. Il secondo, da 5′ e 23″ è anche la sigla radiofonica più figa di tutti i tempi passati presenti futuri (Psychocandy, Radio Lodi, 1992-93).

Riascoltare The Stone Roses fa stare benissimo e sono certo che sarà così anche fra altri 25 anni. Perché in quel disco c’è ancora il 1989, il mitico 1989 fatto dei ricordi migliori dei miei 22 anni. Ma non c’e’ più il futuro. E nemmeno il presente. The past is yours, cari Stone Roses. But the future’s… gone away. C’è più presente e futuro dentro gli album di Bob Dylan e di Leonard Cohen a 80 anni. Dischi sicuramente meno belli, che non saranno dei classici tra 25 anni, con volti di anziani in copertina, ma che oggi sono più moderni dei limoni e dei dripping pollockiani di John Squire. Avevano un disco solo gli Stone Roses, ed avrà sempre un posto speciale nella collezione, ma non è cresciuto con noi, non invecchierà con noi, si risorge una volta sola o tutti i giorni, ed il futuro dipende solo da questo e da noi.

45 45s at 45: FOOL’S GOLD – THE STONE ROSES, 1989 (21/45)

Poi cominciarono a cambiare un sacco di cose: nel mondo, nella mia vita ed anche nella musica. Il 1989 fu come se Qualcuno lassù avesse pestato a fondo il piede sull’acceleratore; io, man mano che si avvicinava lo schianto che avrebbe buttato giù il Muro, mi sentivo sballottato da tutte le parti. La musica stava cambiando. Volevamo cambiare musica.

A Stereodrome, Pistolini passò di colpo dagli XTC ai Public Enemy. I migliori del Mucchio se ne andarono e fondarono Velvet, la più bella rivista di musica mai fatta in Italia. Ovviamente durò neanche 3 anni, ma furono proprio quegli anni lì, in cui il rock morì e dopo 3 minuti risuscitò, prima di ascendere al Nirvana. Si passava dai De La Soul a New York di Lou Reed, dai Pixies a Disintegration dei Cure…

Quando uscì l’album degli Stone Roses, si accese una luce così forte ed isolata da non sembrare neppure vera. Stavamo aspettando dei nuovi Smiths ed invece arrivò questo limone in copertina in mezzo ai colori di Jackson Pollock, questa musica di chitarre cristalline ma acide, di bassi melodici ma black, di ritmi felpati ma funky, e questo cantante a prescindere dalla voce.

Mentre eravamo ancora lì che cercavamo di capire se fosse oro vero o l’oro degli sciocchi, alla fine di dicembre uscì l’ultimo disco degli anni ’80. Da una parte What the world is waiting for, tutto l’album degli Stone Roses condensato in 4 minuti. Dall’altra, una cosa incredibile di 9′ e 53″: l’ultima botta sull’acceleratore, che ci proiettò a tutta velocità negli anni ’90.

Dopo Fool’s gold il rock indipendente si trasformò completamente: dalla contrapposizione totale alla perfetta integrazione con la dance e la club culture. Dopo Fool’s gold gli Stone Roses, invece, finirono. In realtà, l’agonia durò quasi 7 anni; quando arrivò la fine vera, io ero là. Reading Festival, 1996: Ian Brown e Mani, insieme a due sostituti, affondano miseramente davanti a decine di migliaia di persone attonite. Fu un momento stranissimo, di delusione assoluta dentro la celebrazione di un amore fuori tempo massimo.

Di quella giornata, il ricordo più forte che ho è la strada a piedi dalla stazione ferroviaria all’area del festival. Io, con la mia T-shirt nera col limone giallo, che cammino in mezzo a migliaia di ragazzi dai 14 ai 40 anni, metà con magliette degli Stone Roses e metà con il resto dell’indie rock dal ’77 al ’95. In quel momento storico il rock alternativo aveva vinto, i padroni del mondo eravamo noi; ma mentre c’era chi stava con gli Oasis e chi con i Blur, chi con i Prodigy e chi con i Sonic Youth, TUTTI eravamo lì per gli Stone Roses.